Una domanda semplice semplice a Maurizio Landini, Pierpaolo Bombardieri e, più in generale, ai promotori e sostenitori dello sciopero generale di ieri. O del “ritorno della piazza”, come ha titolato Il Secolo XIX. Che cosa rimarrà di più nel cosiddetto immaginario collettivo, magari di quelli che vanno ancora a votare resistendo alla tentazione astensionistica, se non la vogliamo chiamare diserzione elettorale?
I disordini e le fiamme di Torino, comprese o a partire da quelle in cui sono state avvolte le foto della premier Giorgia Meloni e dei suoi ministri, o le solite bandiere rosse al vento di quella che il manifesto ancora orgogliosamente e dichiaratamente comunista ha definito “la rivolta buona”? E che il segretario generale della Cgil ha riproposto promettendo di “rovesciare l’Italia come un guanto”, variante del “calzino” evocato dai magistrati di Milano più di 30 anni fa nell’assalto alla politica, secondo loro, ridotta ad un’associazione a delinquere, ma in una piccola parte risparmiata alle manette e allo sputtanamento di quei tempi.
Temo, ahimè per loro, cioè per i promotori, sostenitori, partecipi e quant’altri dello sciopero generale che rimarranno impresse nella memoria degli ancora elettori più le fiamme e i disordini di Torino che il resto. Sarà per la Meloni un altro affare. E non solo di consolazione per i problemi che le procurano i suoi due vice presidenti del Consiglio e, più in generale, gli alleati di governo bisticciando come in un cortile. O giocando a fare i “paraculetti”, come si è lasciato scappare un attore pur di seconda fila dello spettacolo di questi ultimi giorni.
Si chiede alla destra, dal suo stesso interno di recente, di rinunciare alla fiamma ereditata da Almirante e Michelini, se non direttamente da Mussolini, e la si avvolge in altro fuoco che, ad occhio e croce, potrebbe portarle, ripeto, ancora più giovamento.
Tutto sommato, sotto sotto, se n’è roso conto anche l’unico ex presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra della seconda Repubblica riuscito a vincere qualche elezione, tra le foglie dell’Ulivo e le 300 pagine del programma dell’Unione, Romano Prodi. Che in una intervista al Corriere della Sera ha ricordato al Pd della “sua” Elly Schlein, emersa politicamente nel 2013 per difenderlo nella mancata elezione al Quirinale, ai suoi presunti o potenziali alleati più o meno “indipendenti”, per ripetere l’aggettivo che indossa come un abito l’ex o post-grillino Giuseppe Conte, che “non basta criticare il governo” per sopravvivere all’opposizione. Sulla strada della tanto agognata alternativa occorrono anche “proposte”, ma vere, non gli slogan che la Schlein dispensa fra piazze e convegni, interviste e discorsi.