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L’Italia si è arresa a Bruxelles? Il commento di Polillo

La battaglia d’estate contro la protervia europea ha visto prima ripiegare il governo giallo-verde. Quindi accettare le condizioni dei vincitori. L'analisi di Gianfranco Polillo, già sottosegretario al ministero dell'Economia

 

Alla fine bisognerà prendere atto della sconfitta. Dopo tanti proclami e velleità, l’Italia si è arresa. La battaglia d’estate contro la protervia europea ha visto prima ripiegare il governo giallo-verde. Quindi accettare le condizioni dei vincitori. Il consiglio dei ministri, appositamente convocato per approvare il bilancio d’assestamento, non ha potuto far altro, in un clima di mestizia, che prenderne atto. Ed a poco è servita la plateale assenza dei due azionisti di riferimento. La breve comparsa di Matteo Salvini, indispettito per essere rimasto da solo. E il forfait dichiarato da Luigi Di Maio fin dall’inizio. Episodi che la dicono lunga circa un sempre più palpabile imbarazzo. Ora non resta che attendere il verdetto della Commissione europea. L’auspicio è che non voglia infierire. Per evitare oltre il danno già consumato, anche la beffa.

La manovra prevista, com’è noto, vale 7,6 miliardi di euro. Contro i 9 richiesti dalla Commissione. Un piccolo auto sconto che il governo si è riconosciuto, in anticipo, sperando in una complicata congiuntura in cui si mescolano elementi vari. Uno soprattutto: la necessità di coprire quei vertici che, almeno al momento, rimangano vacanti a causa dei contrari che si sono manifestati tra i 28 Paesi europei.

Le somme trovate nell’assestamento riflettono soprattutto maggiori entrate. Ma ben poche – il miliardo e mezzo che deriva dalla fatturazione elettronica – di natura strutturale. Per il resto si tratta di colpi di fortuna – la maxi multa nei confronti del gruppo Kering-Gucci – o di aver tosato (forse) oltre misura Cassa depositi e prestiti e Banca d’Italia. Il resto è dato da risparmi di spesa, sui due grandi capitoli della narrazione giallo – verde: il salario di cittadinanza e quota 100. Al tempo stesso i 2 miliardi, in precedenza accantonati come garanzia a favore della stessa Commissione europea, saranno definitivamente congelati. Forse potranno variare alcune voci (trasporto pubblico e welfare) ma per la restante spesa, soprattutto in conto capitale, nulla da fare. Grazie a questo maquillage il deficit dovrebbe scendere a fine anno dal 2,4 al 2,04 per cento.

Poteva andar peggio? Come è noto, non c’è limite a questa prospettiva. Sebbene non vi sarà alcun ulteriore salasso a danno dei contribuenti (tanto la pressione fiscale, come certificato dall’Istat, aumenta per conto suo) non si può tirare alcun sospiro di sollievo. È evidente, infatti, che quelle somme potevano essere diversamente utilizzate a favore di un Paese che ha bisogno di tutto. L’averle congelate fa venire alla mente la parabola dei tre talenti. Il rimprovero delle Sacre scritture nei confronti di colui che si era limitato a conservare la dote, evitando qualsiasi suo possibile utilizzo.

La risultante dell’intera manovra ha un indubbio registro deflazionistico. Nel 2017 il deficit era stato pari al 2,1 per cento. Le previsioni, come detto in precedenza, indicano un 2,04 per cento. Quindi una stretta, seppure leggera. In grado, tuttavia, di dare continuità a quella politica di austerity contro la quale, soprattutto i 5 stelle, avevano invocato la fatwā: la condanna senza appello. È, quindi, facile immaginare la soddisfazione di Mario Monti, dall’alto del suo loden, dopo gli irriverenti attacchi subito, in quest’ultimo anno. Il tempo, ancora una volta, è stato galantuomo. Ed alla fine i pifferi di montagna che andarono per suonare, tornarono con le pive nel sacco.

Fosse solo questo l’unico aspetto negativo. Per la verità la soddisfazione di Mario Monti dovrebbe essere almeno doppia. Nel 2011 la stretta fiscale era più che giustificata. Non si trattava solo di far fronte ad uno spread che aveva raggiunto i 570 punti base, rispetto al Bund tedesco. Nè di porre fine ad un Governo che aveva esaurito, da mesi, ogni forza propulsiva. Le radici più autentiche di quella crisi erano a monte. In un sistema produttivo che non reggeva più la concorrenza internazionale. Che aveva bisogno di una forte riconversione produttiva, che doveva essere favorita da misure di pronto intervento. Che le politiche precedenti – sia di centro destra che di centro sinistra – non avevano avuto il coraggio di sviluppare. Per timore dei possibili riflessi politici, in un sistema fin troppo caratterizzato dalla reciproca delegittimazione. La conseguenza di questa paralisi operativa era visibile ad occhio nudo. Si rifletteva in uno squilibrio dei conti con l’estero di carattere persistente ed in continua crescita: meno 3,5 per cento del Pil nel 2010 e meno 3 per cento l’anno successivo.

L’aver a lungo cincischiato, non poteva non determinare una reazione violenta dei mercati. Cosa che si verificò puntualmente, nonostante gli estremi tentativi della manovra d’estate tentata dal Governo Berlusconi, ormai impostata (malamente) fuori tempo massimo. Venuta meno la politica, fu il mercato ad imporre, con lacrime e sangue, la svolta indispensabile. Comportò la perdita di circa il 25 per cento del potenziale produttivo italiano. Fallimenti a catena. Episodi di suicidio. Un incubo, purtroppo inevitabile. Può sembrare un discorso cinico. E forse lo è. Ma il mondo dell’economia non è “un pranzo di gala”. È retto da logiche distruttive, quando non sono dominate dal lume della ragione. Che dovrebbe sostanziarsi nella logica della politica.

Ancora oggi è questa la situazione? Non si dicano sciocchezze. Quel mondo decotto, fatto di una miriade di piccole imprese sempre sull’orlo del fallimento, non esiste più. La stretta darwiniana ha fatto nascere piccoli campioni in grado di imporsi sui mercati internazionali. Oggi l’Italia, con il suo attivo con l’estero (più 2,5 per cento del Pil), è seconda solo alla Germania, una volta esclusa Olanda e Lussemburgo: troppo piccoli per essere un termine di paragone. Ben altri sono i limiti di questo “Rinascimento”. Basi produttive troppo ristrette. Concentrate su una parte minima del territorio nazionale. Il formarsi di un dualismo estremo, che solo una politica di sviluppo complessivo può contrastare. Gli argomenti colpevolmente espunti dal confronto con l’Europa. Ed ecco allora le ragioni più vere di una disfatta.

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