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Tunisia

L’Italia deve temere dall’entrata in funzione del Mes?

Il Mes può rappresentare una sorta di assicurazione. Ecco perché. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Historia magistra vitae? Certamente, ma solo se il relativo messaggio è compreso. Altrimenti c’è sola la certezza di un continuo rotolamento verso l’errore. La storia del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità) fa parte di questo filone, fin dall’inizio. L’Italia avrebbe avuto tutto l’interesse per una sua rapida approvazione. Se non altro perché ne é il terzo finanziatore. Senza contare tra l’altro sugli auspici di Klaus Regling, che ne è l’amministratore delegato. Tedesco atipico, aveva teorizzato la necessità di portare il limite del debito dal 60 al 100 per cento del Pil.

Invece, fin dall’inizio un “fantasma si é aggirato per l’Europa”, nemmeno si fosse trattato del comunismo, invocato da Carlo Marx. Ma più che un fantasma, una “tigre di carta”: con le principali forze politiche italiane — Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia — intente ad innaffiare la pianta del populismo e del sovranismo, nel nome di quell’internazionalismo tra poveri che aveva nella Grecia, e nella sua crisi, il principale punto di riferimento. Come se a travolgere quel Paese fosse stato un “destino cinico e baro” e non un susseguirsi di errori compiuti dalle relative classi dirigenti.

Un atteggiamento più accondiscendente, meno livore contro l’Europa, avrebbe fatto comprendere meglio quella crisi. E rispondere ad un interrogativo rimasto sospeso a mezz’aria. Come operarono, in quell’occasione, le principali Istituzioni europee — Commissione e Bce — ed internazionali, il Fondo monetario? Furono carnefici o samaritani? Vennero incontro alla Grecia o contribuirono all’ulteriore saccheggio? Risposta difficile da dare, nel riproporre quei “se” con cui non si fa la storia. Ed allora non resta che ricordare le caratteristiche essenziali di quella storia, per lasciare a ciascuno di trarre le proprie conclusioni.

Si può cominciare da quanto avvenne nel 2009. Le previsioni di indebitamento netto (deficit di bilancio), per l’anno successivo, indicavano un valore pari al 3,7 per cento del Pil. Una grande bugia che George Papandreou, da poco eletto premier, aveva smascherato. Secondo le previsioni più corrette si sarebbe giunti ad un 12,7 per cento. Soglia ancora troppo bassa rispetto al 15,1 per cento, che risulterà a consuntivo. Un valore mai toccato prima da nessun Paese appartenente all’Eurozona. E con esso la confessione che la pratica del ricorso agli swap con Goldman Sachs, per alterare la realtà finanziaria del Paese, durava fin dai tempi del suo ingresso nell’euro, avvenuto con un anno di ritardo.

Fenomeni di questa natura sono in grado di distruggere la reputazione di qualsiasi Paese ed in grado di azzerare, completamente il merito del suo credito. E per un Paese che, già allora, aveva un debito già pari al 147,5 per cento del Pil, perdere quella credibilità non poteva significare altro che il fallimento. Specie se si considera che i suoi “fondamentali” congiuravano contro ogni ipotesi di risanamento. Le spese complessive erano pari al 53 per cento dal Pil. In altri Paesi (Francia, Finlandia, Belgio) questa percentuale era anche superiore. Ma nessuno pagava interessi, come quelli che gravavano sul bilancio greco — fino al 17 per cento delle spese — irrigidendone la struttura.

C’erano poi due ulteriori elementi, in grado di dare il colpo di grazia. La pressione fiscale, fin dall’ingresso del Paese nella moneta unica era stata di circa 7 punti di Pil in meno della media dell’Eurozona. A dimostrazione di quanto poteva essere spensierata la vita in quel Paese. E quindi mentre tutti i rigoristi dell’Europa arricciavano il naso, puntando il dito contro quelle cicale, nei piani alti del mondo finanziario internazionale si prestava attenzione ad un fenomeno ben più preoccupante: il saldo delle partite correnti. Dopo l’ingresso nell’euro era precipitato. Nel 2008 aveva raggiunto quasi il 15 per cento del Pil.

Se a tutto ciò si sommano i debiti con l’estero, pari secondo Eurostat, ad oltre il 90 per cento del Pil, le conclusioni non potevano che essere sconfortanti. Di fronte ad un quadro così difficile, quale banca privata sarebbe stata in grado di continuare a finanziare un’economia che viveva esclusivamente grazie a prestiti esteri ed al contributo insufficiente di qualche patriota volenteroso? La verità era che la Grecia era in uno stato comatoso, che solo un samaritano poteva cercare di salvare.

Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, nel suo intervento alla Camera del 4 dicembre 2019 aveva cercato di mettere in guardia. “Le tensioni maturate sui mercati europei del debito sovrano a partire dal 2010, — aveva fatto presente — conseguenza della crisi finanziaria globale e delle condizioni di profondo squilibrio dei conti pubblici della Grecia, hanno riproposto con forza il tema dell’adeguatezza della governance economica europea. In particolare, l’assenza di meccanismi di gestione di situazioni di grave crisi finanziaria in un paese membro dell’area ha determinato incertezza, allungando i tempi degli interventi di sostegno, accrescendone i costi, alimentando fenomeni di contagio.”

Troppo debole, troppo tecnico quell’intervento di fronte ad un Parlamento che non conosceva l’abc dell’economia. Passò, di conseguenza una linea di ostilità preconcetta, che spiazzò lo stesso ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, il quale si limitò a temporeggiare, nella speranza di passare ad altri la patata bollente. Ma ora: time is over. Nelle prossime settimane Daniele Franco dovrà dire all’Europa cosa l’Italia intende fare. E non potrà che essere una risposta obbligata.

Si immagini solo se il Mes fosse intervenuto in Grecia al primo segnale di squilibrio macroeconomico. Quando le partite correnti della bilancia dei pagamenti avevano già superato il 4 per cento del Pil, secondo il thresholds (soglia) dell’Alert mechanism. Il che si era verificato fin dall’inizio dell’avventura nella nuova moneta. Il memorandum d’intenti, per dar luogo ad una diversa politica economica, avrebbe ovviamente intaccato la sovranità nazionale del Paese. Ma risparmiato a tanta gente le privazioni successive nel momento più duro della crisi. Al tempo stesso finanziamenti ad un tasso minore avrebbero tagliato le unghie alle grandi banche francesi, tedesche o inglesi, che si erano arricchite, sulla pelle dei greci, imponendo quei tassi d’interesse di cui si diceva in precedenza.

L’Italia deve temere dall’entrata in funzione del Mes? Se si esce da un’impostazione ideologica, la risposta non può che essere negativa. Nel 2011 furono varati diverse provvedimenti per fronteggiare la crisi. In particolare, il six ed il Two pack, quindi il Fiscal compact. Allora si contrapposero due scuole di pensiero: il rigorismo finanziario e la necessità di tener conto degli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, al fine di individuare le necessarie terapie preventive. L’Italia ha notevoli problemi sul fronte finanziario. Si pensi solo al debito pubblico. Mentre è molto più solida sul fronte dell’economia reale.

Dal 2014 le partite correnti della sua bilancia dei pagamenti sono in forte attivo. Oscillanti intorno al 3 per cento del Pil. Una sorta di piccola Germania. Nel 2011 il suo debito nei confronti con l’estero era pari al 20 per cento del Pil. Nel 2020 tutti quei debiti sono stati saldati e l’Italia è divento un paese creditore nei confronti dell’estero. Nel terzo trimestre dello scorso anno il credito vantato era di oltre 100 miliardi di euro: oltre il 6 per cento del Pil. Se tutto andrà secondo le previsioni della Commissione, chiuderemo l’anno in corso con un valore superiore ai 180 miliardi di euro. Quanto riceviamo dalla Next generation UE. E saremo al terzo posto dopo Germania ed Olanda.

La dimostrazione della vitalità di un Paese che deve fare ancora molto. Ma operare per crescere, non certo per subire controproducenti strette finanziarie. Ed ecco allora che il Mes può rappresentare una sorta di assicurazione. Nella linea dello sviluppo, con il rigore che questa prospettiva incamera, esiste anche la quadratura del cerchio dei problemi finanziari. Sarà sufficiente, infatti, che il tasso di crescita dell’economia sia superiore al tasso di interesse, per ottenere la progressiva riduzione del rapporto debito/Pil. La presenza del Mes può ostacolare questo disegno? Al contrario: gli eventuali finanziamenti sarebbero concessi ad un tasso minore, mentre l’eventuale memorandum non dovrebbe essere altro che la codificazione di quell’impegno, che forze politiche, degne di questo nome, dovrebbero da tempo aver fatto proprio. Troppo lineare? Forse. Sempre meglio tuttavia di quell’”estremismo che è malattia infantile del sovranismo”.

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