Salvo imprevisti il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi sarà eletto il 16 aprile alla guida della Confindustria, con un voto “a distanza” reso necessario dalle circostanze. Certo si tratta di un naturale avvicendamento al timone della più importante organizzazione imprenditoriale italiana previsto dalle regole statutarie. Ma l’elezione di Bonomi qualche mese fa non era scontata, soprattutto per una certa diffidenza degli apparati confindustriali che, come avviene nelle strutture associative, esercita un potere reale che riesce spesso a “orientare” la base.
Del resto una buona parte del mondo industriale ha spesso preferito tirare a campare piuttosto che esporsi su progetti affascinanti ma scomodi. I tempi però sono drammaticamente (e improvvisamente) cambiati e in una realtà vitale come quella delle imprese l’esigenza di un “cambio di passo” è particolarmente sentita. Il personaggio sembra dotato di una forte personalità che lo ha spinto in questi giorni a reagire, con una determinazione sconosciuta al tradizionale “understatement” confindustriale, di fronte alle accuse non molto velate agli industriali di ostacolare la chiusura delle attività non essenziali. Sottolineando che le fabbriche che violano le regole vanno chiuse, Bonomi ha evocato i toni del celebre discorso del 9 marzo 1977 di Aldo Moro in Parlamento (“chiediamo di essere rispettati e non ci faremo processare nella pubblica piazza”) sullo scandalo Lockeed, affermando che: “Gli industriali non sono assassini e non se lo fanno dire da nessuno”.
Del resto l’infelice decisione dei sindacati di minacciare uno sciopero generale, anziché intervenire sui casi di violazione delle norme di sicurezza nelle situazioni concrete, ha fornito agli industriali l’occasione di far rilevare come le filiere di prodotti essenziali siano trasversali e occorra evitare di metterle in crisi. Nella “carriera” di Bonomi c’è un elemento di discontinuità rispetto alla “morta gora” delle attuali relazioni industriali, che va ricordato.
Nel maggio 2018, prima della inattesa nascita della coalizione di governo tra Lega e 5 stelle, Assolombarda diffuse un libro bianco sulle relazioni industriali con la finalità dichiarata di “produrre pensiero” alla ricerca di un cambiamento assumendosi “la responsabilità di non seguire il consenso ma di proporre quello che serve al paese”. Non a caso le ricette indicate erano ben lontane dalle scelte poi effettuate del primo governo Conte e, in gran parte, confermate dal secondo. Il documento sottolineava che la globalizzazione e le nuove tecnologie mettevano in crisi i tradizionali canali di rappresentanza a vantaggio di una “nuova centralità” del territorio e che la diffusione della contrattazione di secondo livello, cogliendo al meglio le specifiche dinamiche aziendali, poteva generare valore in termini di produttività, competitività e benessere del lavoratore. Era una forte sfida culturale e politica alle istituzioni e al sindacato. E’ ancora attuale oggi questo progetto? Probabilmente sì, soprattutto nella fase di ripresa.
Le conseguenze economiche della pandemia saranno molto gravi: senza evocare una depressione planetaria o qualcosa di simile al 1929 non possiamo neppure illuderci di ripartire dalle crisi “tradizionali” del secondo dopoguerra. Sconfitto il coronavirus sarà assai impegnativo ricostruire la “normalità”, garantendo un sostegno adeguato ai lavoratori dipendenti, agli autonomi ed alle imprese che si troveranno nelle maggiori difficoltà. Appare sin d’ora necessario il delinearsi di una strategia di intervento pubblico massiccio ed esteso, come sostegno transitorio al sistema produttivo patrimonio inalienabile del paese. A condizione però di evitare il rischio di ripetere meccanicamente le statalizzazioni del tipo Alitalia.
La gravità e la inevitabile impopolarità delle decisioni che le istituzioni e le forze politiche e sociali dovranno assumere ha reso evidente le disastrose conseguenze provocate dalla eliminazione pressochè totale di una classe dirigente che, pur nei suoi limiti ed errori, era stata protagonista della ricostruzione e della rinascita del paese tra il dopoguerra e i fatali anni novanta. L’incompetenza, la superficialità, l’improvvisazione, ma soprattutto la mancanza della consapevolezza che il legittimo esercizio del potere è inscindibile dalla assunzione delle responsabilità, hanno reso fragilissime le istituzioni, tanto il governo quanto le opposizioni.
Non è un caso che, ben prima del coronavirus, si è spesso andati alla ricerca di personalità autorevoli, per competenza e onorabilità, nel tentativo di dare soluzioni ad un quadro politico complessivamente confuso e privo di identità progettuale . Lo stesso massiccio intervento che tutti auspicano da parte dell’Ue, “what ever it takes”, richiederebbe, per razionalità politica e senza alcuna umiliazione nazionale, anche la disponibilità alla cessione di sovranità da parti dei singoli paesi per riprendere la via degli Stati Uniti d’Europa. Difficile che oggi gli attuali gruppi dirigenti possano (e vogliano) assumersi questo fardello. Per questo c’è bisogno di far crescere nuove leaderships, saldamente ancorate alla concezione di uno stato liberal-democratico e ai valori della solidarietà, per accelerare la ricostruzione di una classe dirigente in grado di affrontare con coraggio e credibilità un futuro incerto.