Le prime 10 banche italiane hanno archiviato il 2018 con utili complessivi pari a 9,3 miliardi di euro. Dietro questa performance assai positiva ci sono manovre contabili, agisce l’ingegneria finanziaria, sono rilevanti gli effetti delle novità legislative (italiane ed europee), incidono gli interventi regolatori della Bce. L’attività delle banche si misura e si valuta sui risultati di vari comparti. E, soprattutto, si pesano gli asset industriali: il credito, la finanza, la gestione del risparmio. Valori che si esprimono con numeri e dati precisi. Esistono, però, altri asset che sono altrettanto strategici per i grandi gruppi bancari e, non a caso, catalizzano l’interesse di tutti i top manager del settore.
Uno di questi asset “intangibili” è il contratto collettivo nazionale di lavoro: tra non poche difficoltà, come raccontato puntualmente ieri da StartMag (oltre 50mila le visualizzazioni dell’articolo di giorni fa), sta per partire il negoziato per il rinnovo e l’altissimo livello di attenzione dei banchieri dimostra quanto il dossier sia cruciale. Nella partita, in ballo non c’è solo il tema dello stipendio dei lavoratori, che pure ha un peso sugli stessi bilanci del settore. Il contratto è il terreno sul quale si incrociano – e talora si scontrano – gli interessi delle diverse anime dell’industria bancaria del Paese: i grandi gruppi, le banche medie e i player più piccoli.
Un esempio fra tutti è rappresentato dal fatto che non tutte le grandi banche si trovano ad avere spesso posizioni differenti su argomenti che riguardano il contratto dei bancari. E c’è chi fra le grandi banche intende costruire un contratto nazionale con l’obiettivo di abbracciare il comparto assicurativo e lo stesso contratto del credito cooperativo. Progetto con ricadute sul comparto assicurativo e sull’Ania, oltre che sui tre neonati gruppi bancari delle Bcc: Iccrea, Cassa centrale banca (Ccb) e Raiffesen. Intesa Sanpaolo è la quarta banca dell’Eurozona per capitalizzazione, è tra i primi in Europa nell’asset management e nel private banking.
Ed è altrettanto chiaro che Intesa Sanpaolo ha in mente di portare a scadenza il prossimo rinnovo Abi con quello del contratto assicurativo e quello rinnovato da pochi giorni, per un anno, del credito cooperativo. Le trattative che partiranno sul contratto dei bancari rappresenteranno perciò la cartina di tornasole di questi progetti, anche se dal fronte sindacale – in particolare il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni – queste situazioni sono da tempo sotto osservazione e controllo.
Insomma, tra gli addetti ai lavori c’è chi accosta il contratto dei lavoratori del sistema creditizio alle onde gravitazionali: perché gli effetti si propagano nel tempo e perché è stato capace di ammortizzare anche gli scossoni ondulatori dell’arco di tempo in cui è in vigore, sia quelli di carattere economico-finanziario sia quelli squisitamente politici. Il contratto è lo strumento che stabilisce le regole più importanti per l’attività bancaria e, allo stesso tempo, dovrebbe garantire le medesime situazioni competitive a tutte le realtà del settore; dovrebbe contribuire ad assicurare quel level playing field (spesso alterato dalle riforme normative), cioè creando le condizioni per regole di ingaggio uguali per tutte le banche italiane.
E qui entriamo nel secondo argomento, quello dell’importanza del peso del sindacato rispetto agli obiettivi e alle esigenze delle banche. Con Francesco Micheli (direttore generale Intesa Sanpaolo) alla guida del Comitato sindacale Abi (2010-2014) e poi con Alessandro Profumo (2014-2015), due autentici pesi massimi del gotha bancario italiano, si sono rinnovati due contratti nazionali che, sotto la gestione Micheli, hanno portato alcuni preziosi vantaggi al gruppo Intesa, riequilibrati poi dall’equidistante politica attuata da Profumo sotto la sua regia. Nel corso degli ultimi 20 anni, si sono alternati alla leadership del movimento sindacale bancario italiano diversi personaggi: Giuseppe Gallo della Fiba Cisl attorno agli anni 2000 ebbe l’intuizione di creare il fondo esuberi che ha poi consentito la gestione morbida delle eccedenze e delle crisi evitando licenziamenti; Domenico Moccia e Nicoletta Rocchi della Fisac Cgil che con il governo di centro sinistra gestirono per qualche anno il settore bancario; Agostino Megale delle stessa Fisac che arginò il tentativo di alcune componenti interne delle sua organizzazione di radicalizzare lo scontro con le banche, garantendo una certa stabilità al settore.
Dal 2010 a oggi la leadership sindacale è in mano saldamente alla Fabi guidata dal segretario Sileoni a cui tutti – amici e avversari – riconoscono una visione politico-sindacale di grande livello, come ha sottolineato due giorni fa il quotidiano Mf/Milano Finanza. La Fabi è una delle poche realtà sindacali del Paese in crescita di iscritti, 110.000 fra Abi e Bcc con oltre 4.000 dirigenti sindacali; ha una presenza storicamente radicata nei territori e nelle banche, riconosciuti dirigenti sindacali sia a livello di gruppo sia a livello aziendale sia come componenti dell’attuale segreteria nazionale. L’intera organizzazione è sempre compatta attorno alla propria segretaria composta dai vari Mauro Bossola, Giuliano De Filippis (considerato la guida intellettuale della organizzazione e persona di assoluta fiducia di Sileoni), Franco Casini, Mauro Morelli, Giuseppe Milazzo, Mauro Scarin, Luca Bertinotti, Giuliano Xausa, Fabio Scola, Mattia Pari (ritenuto il naturale erede di Sileoni). Nella First Cisl, secondo sindacato del settore, Riccardo Colombani ha da poco sostituito Giulio Romani, ereditando una difficile situazione interna che passa dalla perdita di numerosi iscritti a un peso politico tutto da ritrovare. Colombani è persona seria e colta, saprà sicuramente trovare le giuste soluzioni, è la convinzione che circolano nel sindacato della confederazione di via Po. Nella Fisac Cgil, Giuliano Calcagni è subentrato ad Agostino Megale, vecchia volpe della confederazione di Corso Italia. Nella Uilca, tutto ruota intorno alla figura di Massimo Masi da anni alla guida della organizzazione bancaria del sindacato guidato da Carmelo Barbagallo. Gli autonomi di Unisin sono guidati da Emilio Contrasto che da sempre intrattiene un ottimo rapporto col segretario generale Fabi.
La Fabi, con la gestione di Sileoni, è riuscita ad alzare un muro invalicabile a difesa della categoria rispetto alle ambizioni e ai progetti a volte sfrenati delle banche per liberarsi dai vincoli del contratto nazionale. Su argomenti di grande importanza sociale, pensionamenti e prepensionamenti, assunzioni di giovani attraverso il Fondo per l’occupazione, esternalizzazioni, riforma inquadramenti, pressioni commerciali e altro, la Fabi e le altre organizzazioni hanno di fatto in questo ultimo decennio, nonostante l’enorme crisi del settore, frenato e gestito a vantaggio dei lavoratori ogni tipo di problematica. Senza la presenza del sindacato, le banche si sarebbero pesantemente scontrate fra loro per raggiungere vantaggi economici e finanziari, penalizzando pesantemente le condizioni normative e professionali della intera categoria. Il contratto nazionale del settore rappresenta quindi l’unico strumento di equilibrio, per garantire pari opportunità a tutte le banche salvaguardando e tutelando i lavoratori bancari.
Altro esempio: col rinnovo del 2015, l’Abi e le banche si erano impegnate a riportare all’interno del perimetro bancario una serie di attività precedentemente traslocate. Stiamo parlando delle esternalizzazioni che consentono alle banche di ottenere vantaggi, in termini economici, molto importanti, a volte decisivi per passare da un bilancio in perdita a uno con profitti. Ragion per cui, i principali gruppi preferiscono realizzare “fuori casa” alcune lavorazioni del cosiddetto back office e, se l’indirizzo di quella “casa” è all’estero, il vantaggio può crescere esponenzialmente. Sul totale dei costi, le lavorazioni di back office non sono affatto irrilevanti. Quello che in Italia costa due o tre euro “a pezzo”, in taluni paesi dell’Europa dell’Est si gestisce addirittura con poche decine di centesimi. Sembra un dettaglio, ma se si pensa alla massa di operazioni (decine di migliaia al giorno), soprattutto nel circuito dei pagamenti, allora è più chiaro che la convenienza è estrema. Le banche, di fatto, hanno imboccato la medesima strada della delocalizzazione di altre realtà produttive, come la manifattura tessile, che prima ha esplorato la Cina e oggi preferisce altri siti produttivi come il Bangladesh.
Qui, tuttavia, la faccenda non merita di essere osservata solo come fenomeno di impoverimento della nostra economia, ma anche come fattore di dumping tra le realtà bancarie di diverse dimensioni, è la convinzione dei leader sindacali. Per andare Oltreconfine servono quantità e masse così grandi che solo in pochi possono permetterselo: piccole e medie banche sono sostanzialmente costrette a restare in Italia, ma la conseguenza sul conto economico si sente, eccome. Qualcuno tiene botta coi consorzi, ma lo spread si accorcia solo marginalmente. È la discutibile legge del più forte, spesso rinforzata dalle scelte delle autorità di vigilanza che, a conti fatti, favoriscono i big (più attrezzati a far fronte alle strette regolatorie, come Intesa Sanpaolo e UniCredit) rispetto alle mini bank o ai medi gruppi.
Questioni che sono centrali nella partita sul contratto. Il negoziato, dunque, non è solo una battaglia tra banchieri e rappresentanti dei lavoratori, ma è anche l’occasione per regolare i conti fra le stesse banche. E il ruolo del sindacato, in quest’ottica, è mantenere anche l’equilibrio tra le acerrime sfide fra le banche oltre che la strenua difesa dei diritti dei dipendenti degli stessi istituti.
Perciò il sindacato – e qualcuno più di altri – è il perno attorno al quale ruotano alcuni interessi strategici delle banche. Spieghiamo meglio. Col prossimo rinnovo, i grandi gruppi vorrebbero inserire nel contratto nazionale alcune novità adottate con gli accordi di secondo livello, come lo smart working (lavoro da casa un po’ di giorni) o il contratto ibrido (metà dipendete bancario e metà promotore finanziario) o inserire rispetto allo stipendio una velocità a due tempi, una parte fissa e una variabile secondo i risultati ottenuti dai singoli lavoratori. Obiettivo dei big, a caccia di vantaggi su tutti i fronti, è istituzionalizzare nuove “fattispecie” contrattuali anche per blindarle da eventuali assalti nelle aule giudiziarie.
Di tentativi in questa direzione ce ne sono già stati diversi, a partire dal 2000, ma i sindacati hanno arginato gli assalti – sovente spregiudicati dei banchieri – si mormora nei sindacati – e sono riusciti a garantire alla categoria una precisa identità e una indiscussa, riconosciuta qualità. Senza il sindacato, per essere più precisi, si sarebbe corso il rischio di assistere alla trasformazione della categoria a qualcosa di simile al comparto metalmeccanico. Mentre la sfida oggi per le organizzazioni sindacali – ragiona un dirigente sindacale di lungo corso – è cancellare le esternalizzazioni col nuovo contratto, che poi va fatto rispettare e applicare a tappeto perché deve garantire tutte le banche oltre che i lavoratori e confermare il trend positivo delle assunzioni di giovani lavoratori.
La battaglia fra sindacato e banche degli ultimi 20 anni ha dei protagonisti precisi: Paolo Cornetta ed Emanuele Recchia per Unicredit, Alfio Filosofmi per Intesa, Ilaria Dalla Riva per Mps, Elvio Sonnino e Mario Napoli per Ubibanca, Roberto Quinale per Bnl Bnp Paribas, Salvatore Poloni per Bpm Banco e oggi presidente Casl Abi, Giuseppe Corni e Stefano Verdi di Bper.
In questo quadro c’è il ruolo di Abi. La struttura dell’associazione ora presieduta da Antonio Patuelli è stata progressivamente ridimensionata sin dal 2010 (i dipendenti erano più di 500, oggi sono la metà), ma i grandi gruppi considerano l’Associazione bancaria ancora decisiva proprio per l’importanza del contratto nazionale. Se ne occupa il Comitato affari sindacali e del lavoro (Casl), organismo oggi presieduto da Poloni, in passato guidato da pezzi da novanta del calibro di Maurizio Sella, Francesco Micheli di Intesa Sanpaolo e Alessandro Profumo. Poloni ha un compito non facile, quello di realizzare un nuovo contratto di lavoro che crei le condizioni per un equilibrio duraturo e per garantire stabilità. La situazione è sotto osservazione continua da parte del presidente Abi, Antonio Patuelli, che interviene solo quando ci sono grane di un certo livello avvalendosi della preziosa collaborazione del direttore generale Giovanni Sabatini e di Stefano Bottino. Per la prima volta, il comitato di presidenza di Abi è composto anche dagli amministratori delegati dei gruppi e lì Victor Massiah di Ubi ha un peso politico rilevante. Nell’esecutivo Abi, Intesa ha piazzato anche Rosario Strano, quotato manager chiamato in causa solo se ci sono questioni serie da risolvere. E poi c’è Camillo Venesio (Banca Piemonte) che rappresenta gli interessi delle piccole banche. Questo è il quadro politico complessivo della situazione, con tanto di nomi e cognomi dei protagonisti. Trovare un accordo in questa fase di avvio del rinnovo del contratto nazionale conviene a tutti: lo sa bene Patuelli, lo sanno Poloni, Sileoni, Colombani, Masi e Contrasto, lo dovrebbe sapere ancora meglio Calcagni.