Ho l’impressione che il Sindacato Confederale abbia un problema di riconoscimento e rappresentazione della realtà. Cerco di spiegarmi con un esempio “importante” ma riconducibile anche a situazioni meno clamorose, quello dell’incidente alla centrale ENEL di Suviana: non si conoscono ancora le cause ma la CGIL e i suoi alleati hanno già deciso che la causa sta nella catena di subappalti che usa come carne da cannone i precari e la motivazione nella famelica ricerca di extraprofitti, nonché nell’indifferenza criminale delle aziende in materia di norme per la sicurezza. In realtà i lavoratori coinvolti erano tecnici sperimentati e competenti e, quale che fosse il trattamento contrattuale che gli era applicato, non è certo neppure una concausa dell’incidente. Che poi in ENEL si trascuri la sicurezza è una frottola che chiunque abbia avuto a che fare coi siti produttivi ENEL può tranquillamente smentire: l’Azienda è notoriamente attenta, così come lo sono le RSU (quindi il Sindacato) che ai sensi di legge, sono corresponsabilizzate nella prevenzione e nella gestione delle situazioni di rischio. A meno che Landini ritenga di dover dividere tra Azienda e Sindacato le responsabilità per quanto è successo…
Ma fin qui saremmo ancora alla melassa retorica che ci sommerge in occasioni di questo tipo, molla per scene di sciopero e manifestazioni oceaniche, con simmetrica noncuranza per indagare le ragioni concrete degli incidenti: capisco che questa è una ricerca che va fatta sul campo, e da chi il campo lo conosce, ma sarebbe lungo, poco teatrale e magari pure frustrante se poi si capisce che c’è una responsabilità delle vittime oppure che è stato qualcosa di casuale e imprevedibile (ricordarsi sempre che la sicurezza al 100% è un obiettivo cui tendere sempre perché in realtà non verrà mai raggiunto). Per cui si preferisce attenersi al menu tradizionale: più controlli (da parte degli Ispettori, certamente, ma anche, pare opportuno, da parte dei Rappresentanti dei Lavoratori alla Sicurezza -RLS- che sono figure con competenze e poteri di legge) e soprattutto l’istituzione del reato di “Omicidio sul Lavoro”.
Quest’ultimo è un omaggio alla tradizione leguleia di un Paese nel quale non ci sono mai stati né il Lumi né una Rivoluzione Liberale, e nel quale la legislazione risolve tutto chiamando le cose con il loro nome; omicidio non basta: occorre distinguere dal contesto: l’omicidio può essere stradale, femminicidio, sul lavoro, e se volete si possono elencare altre fattispecie. Resta l’interrogativo sulla differenza tra un omicidio stradale e uno sul lavoro, posto che entrambi siano colposi: la differenza la faranno le eventuali aggravanti, ma di base non si capisce se debba esserci una differenza e quale. Ma il dubbio principale è: non mancano in Italia le leggi, anzi sono talmente numerose da non essere tutte conosciute e in alcuni casi anche comprese, ma ciò che manca è la loro attuazione. Che a questo vero problema si pensi di ovviare facendo una nuova legge dice quanto il Sindacato cominci ad avere difficoltà a comprendere la realtà concreta del Paese.
Tuttavia nella presente occasione Landini & Co. sono andati molto al di là, scolpendo nei comizi delle manifestazioni un new deal, che oggi, a dargli retta, costituirà la stella polare del Sindacato, o più in generale, almeno nelle intenzioni, del Movimento dei Lavoratori. Landini ha parlato di “leggi balorde” da abrogare, ma anche e soprattutto di un “modello di fare impresa” nuovo, che rimpiazzi quello che da 20 anni ha imposto il liberismo e il massimo profitto come modello aziendale.
Qui l’estraneità rispetto al mondo reale e l’autoreferenzialità delle Segreterie Confederali rispetto al mondo reale si manifesta in tutta la sua magnificenza: le leggi balorde da abrogare consistono essenzialmente nel Jobs Act, e in particolare nella modifica dell’art. 18. Che il Jobs Act e il contratto a tutele crescenti abbiano prodotto crescita dell’occupazione stabile è ininfluente: per la CGIL ha mutato i rapporti di potere tra sindacato e azienda, e questo prevale su qualunque altra cosa… Ma soprattutto è il nuovo modello aziendale ad essere imputato: non è chiaro quale sia questo nuovo modello di impresa così pernicioso, visto che l’occupazione (stabile) cresce; la contrattazione aziendale anche, pure con importanti novità quali il welfare aziendale; l’unica cosa che cresce solo in ritardo è il CCNL, che per l’appunto sarebbe il lavoro di Landini & Co.
Stiamo però assistendo ad un fenomeno insolito e (parzialmente) nuovo: le Categorie continuano a lavorare in concreto in un tessuto di relazioni industriali sostanzialmente consolidato, non privo di limiti ma bene o male funzionante, tanto più quanto la trattativa è di prossimità: bene a livello aziendale, discreto a livello territoriale, sofferto a livello nazionale, dove comunque, sia pure con ritardi non privi di conseguenze sui salari, i CCNL si stanno via via rinnovando. Dall’altro le Confederazioni (con un distinguo, per essere onesti, per la CISL) si concentrano sul terreno politico, che diventa il teatro principale dell’attività sindacale: è qui che si rivendicano i miglioramenti salariali attraverso decontribuzioni e defiscalizzazioni, ma si rivendica anche l’abolizione delle leggi “balorde”, l’intervento dello Stato nelle crisi industriali (con i risultati che sono sotto gli occhi, vedi Whirlpool, ILVA, Stellantis, ecc.), leggi “per il lavoro”, salvo non sapere assumere una posizione che non sia retorica sulla questione del salario minimo e sull’attuazione dell’art.39 della Costituzione, che detta le regole per il riconoscimento della rappresentatività delle OOSS.
Il focalizzare il confronto con la politica non è una naturale evoluzione della concertazione, che prevedeva l’assunzione di impegni con un criterio di reciprocità tra Governo e rappresentanze del lavoro e delle imprese: qui si tratta di un confronto tutto politico tra sindacato e governo, su argomenti politici e con mezzi propri della politica (vedi i referendum). Non è del tutto una novità che la CGIL usi lo strumento del referendum come strumento di lotta contro governi considerati “ostili”: in generale non le è andata bene, ma quello che val la pena sottolineare è il contesto nel quale stavolta si muove l’iniziativa: gli obiettivi puntuali dei referendum sono inseriti in un quadro strategico di grande respiro, perfino con ambizioni millenariste e palingenetiche: “siamo di fronte a un modello di fare impresa e di lavorare che si è affermato negli ultimi venti anni che va cambiato e che non è più accettabile, un modello che ha messo al centro non il profitto ma il massimo profitto a scapito della condizione di lavoro e della vita delle persone”, queste le parole di Landini.
L’ambizione di dar vita ad un nuovo modello di fare impresa risale ai tempi delle utopie socialiste e anarchiche, fu il senso che Gramsci e il gruppo dell’Ordine Nuovo cercò di dare all’occupazione delle fabbriche a Torino nel 1920 (che invece si concluse con un ottimo accordo sindacale, ancorché non applicato nella sua parte essenziale per le difficoltà del Governo Giolitti, che avrebbe dovuto produrre una legislazione di sostegno); fu la grande fascinazione del ’68 europeo: il mitico autunno caldo però portò a conquiste importanti sul piano contrattuale, ma del nuovo modello di impresa rimane solo il ricordo un po’ patetico e sbiadito del “nuovo modo di produrre l’auto” caro alla FLM di Mirafiori.
Quando un sindacato si attribuisce un ruolo talmente catartico è inevitabile che tutto ciò che è di minor portata, a meno che non sia utilizzabile in funzione tattica, sia poco interessante e trascurabile. Il che getta qualche ombra sul ruolo di questo sindacato nel mondo reale, e soprattutto fa spazio ad un sindacato interessato invece a fare contrattazione piuttosto che a promuovere un nuovo modello di società.
Sembra, a leggere Landini e i suoi amici, di ripercorrere la vicenda del massimalismo negli anni del primo dopoguerra: la narrazione di un paese in miseria che reclama un cambio radicale dei rapporti sociali, economici e politici, la promessa di una palingenesi da conquistare con la lotta senza compromessi (quelli li fa la CISL, direbbero in CGIL). Tutto ciò dimostra quanto sia vero l’aforisma per cui la storia può essere una tragedia, ma quando si ripete è una farsa. Landini non è il Bombacci del 1921, Sbarra non è Buozzi (e per fortuna la Meloni non è Mussolini, e manco la Sarfatti…).
Tuttavia questa replica, scadente anche a causa delle non eccelsa qualità degli interpreti, rappresenta abbastanza fedelmente il nodo mai sciolto nella storia politica della sinistra italiana: il conflitto tra riformismo e massimalismo, che ogni tanto fa capolino, soprattutto nei momenti in cui la sinistra non è in buona salute.
Il terreno sindacale forse si presta maggiormente di quello politico al prevalere del riformismo: le OOSS hanno a che fare con cose concrete, che richiedono risposte concrete in tempi non legati al futuro “nuovo modello” (che peraltro nel caso attuale non è mai stato delineato in modo comprensibile). Questo determina una faglia di frattura potenziale non solo tra le Confederazioni Sindacali, ma anche al loro interno tra le organizzazioni territoriali e di categoria più vicine al sistema reale di relazioni industriali e quelle nazionali che hanno scelto, come detto prima, il terreno della politica come contesto dell’agire sindacale.
Non resta che sperare che finisca bene: credo proprio che del Sindacato, quello vero, che tanto spesso abbiamo visto all’opera nella storia del Paese dalle lotte del primo novecento alla concertazione, ci sia ancora molto bisogno!