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Il Def, il cazzeggio politico e l’inazione europea sugli investimenti. Il commento di Polillo

Se il cavallo non beve, allora lo Stato può svolgere un ruolo di supplenza facendo crescere il disavanzo pubblico, per rilanciare la domanda effettiva. Meglio con gli investimenti. Si è mai discusso di queste cose a livello europeo? Il commento di Gianfranco Polillo, già sottosegretario al Tesoro

 

La verità è che l’Italia si è arresa. Non Matteo Salvini e Luigi Di Maio soltanto. Ma l’Italia tutta. L’Italia delle Università, sempre più silenti. Quella dei grandi commis d’état, in passato capaci di sfidare le ira del ministro di turno, per difendere ciò che altri non riuscivano a vedere. Insomma tecnici ed intellettuali che hanno buttato la spugna. Ritirati a vita privata. Stanchi di una politica che si è ridotta al semplice cazzeggio. E allora non resta altro che accontentarsi del comunicato sul Def: che sottolinea il “rispetto degli obiettivi fissati dalla Commissione europea”. Succedaneo di un’inesistente politica.

Su quel documento è bene stendere un velo pietoso. Commentare le relative cifre serverebbe a nulla. Saranno cambiate, vedremo se in meglio o in peggio, in corso d’anno. Inutile allora perderci tempo. La presentazione di quel documento poteva essere l’occasione per avviare una discussione più approfondita sui possibili destini del Paese. Ma la campagna elettorale incalza e con essa si avrà un diluvio di promesse accompagnato da un coro di critiche inconcludenti. Serviranno, forse, a far eleggere qualche deputato in più o in meno. Ma del tutto irrilevanti rispetto al futuro dell’Italia. Che comunque una direzione l’ha presa: più nel male che non nel bene. Anche se non ci sarà alcuna Caporetto.

Manovre correttive di una consistenza tale da frenare l’ulteriore crescita del rapporto debito-Pil sono semplicemente impossibili. Sarebbe come chiedere ad un malato terminale di partecipare alla maratona. Schiatterebbe dopo aver fatto pochi centinaia di metri. Quel poco o tanto che si può ottenere da maggiori risorse erariali (più tasse o minori spese) sarebbe più che compensato da una maggiore caduta del Pil, che opererebbe in direzione avversa e contraria. Alla fine il punto di arrivo, com’è avvenuto dal 2007 in poi, sarebbe peggiore del punto di partenza. La parola d’ordine, quindi, non può che essere: calma e gesso. Che in politica significa “gradualismo”. Giovanni Tria ha, quindi, perfettamente ragione. Ma, a sua volta, il gradualismo presuppone lo sviluppo coerente di un programma di governo. Il quale, data la gravità della situazione italiana, non può che avere un orizzonte di legislatura. E una qualità, che richiederebbe la massiccia presenza di quel lievito culturale (l’appello ai tecnici e alle università) che oggi manca. Elementi che, nella storia italiana, sono stati presenti solo in fasi eccezionali.

Meglio allora limitarsi a guardare dentro la crisi. Osservarne l’intrinseca dinamica che cambia continuamente l’ambiente circostante. E cercare di capire dove condurrà. Nelle previsioni del Def, ancora una volta, risalta il saldo positivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Divenuto tale nel 2012, quando negli anni precedenti il deficit era stato quasi sempre permanente, da allora si è progressivamente stabilizzato. Sarà ancora una volta pari al 2,5 per cento del Pil, fino al 2022. Dato quasi inossidabile, indipendente dalla maggiore o minore crescita del reddito. La stessa crisi tedesca, tante volte richiamata per evocare i guai italiani, non dovrebbe comportare conseguenze sui quei grandi numeri. Ovviamente è difficile dire se, alla fine, quelle previsioni troveranno conferma. Ma comunque sia, l’idea che in Italia vi sia, al tempo stesso, eccesso di risparmio interno, carenza di investimenti e quindi surplus con l’estero, mentre il tasso di disoccupazione si mantiene quasi stabile e socialmente insostenibile, dovrebbe far riflettere.

In questi casi la politica economica, se non viziata da astratti fondamentalismi (austerità), è in grado di fornire le necessarie risposte. Se il cavallo non beve, come si diceva una volta, allora lo Stato può svolgere un ruolo di supplenza facendo crescere il disavanzo pubblico, per rilanciare la domanda effettiva. Meglio con gli investimenti. Lo potrà fare fino al punto (teorico) in cui il maggior deficit pubblico assorbe tutto l’eccesso di risparmio riequilibrando i conti con l’estero, in un ritrovato pareggio. Si è mai discusso di queste cose a livello europeo? Vi ha accennato qualche volta Mario Draghi, ma da parte dei tecnici – lasciamo stare i politici – del governo è stato un silenzio assordante. Perché? Questo è oggi l’interrogativo, che rimane sullo sfondo.

Il surplus con l’estero deriva quasi esclusivamente dell’impegno produttivo delle aziende collocate nei territori del Nord est: Milano, Treviso e Bologna. Sono loro i titolari dei crediti verso l’estero (export), che sono di gran lunga superiori ai debiti contratti da tutta l’Italia come contropartita per le importazioni. Il relativo risparmio si concentra pertanto solo in alcune parti del territorio nazionale. E non viene reinvestito, se non in parte, nei luoghi di produzione. Il grosso, invece, è direttamente collocato all’estero (delocalizzazione, acquisto di asset, investimenti di portafoglio) non ritenendo conveniente da parte dei legittimi possessori l’ulteriore investimento domestico. Scelte più che legittime da un punto di vista economico e finanziario.

Il loro ritorno negativo è tuttavia evidente. Spingono allo status quo, piuttosto che al cambiamento. Continuare ad avete il controllo esclusivo dei propri mezzi, piuttosto che perseguire obiettivi più ambiziosi. Scelta indubbiamente comprensibile, da un punto di vista individuale, ma con quali conseguenze su un piano più generale? Se non il consolidarsi di un assetto dualistico, quale tratto distintivo e peculiare della realtà italiana, rispetto all’esperienza prevalente degli altri Paesi.

Da un lato una parte dell’Italia che, nonostante la crisi, continua a godere di un relativo benessere, dall’altra la maggioranza del Paese costretto a vivere in condizioni sempre più precarie. Ed in mezzo quel “circolo vizioso” che tende far crescere, nel tempo, le relative differenze. Con le aree più forti, che già dispongono di risorse (soprattutto finanziarie) ridondanti, ma che ne attirano altre dalle loro periferie. E quelle più deboli che subiscono la continua spoliazione, sotto forma di trasferimenti finanziari e flussi migratori. Lo schema tipico, prima dell’avvento della globalizzazione, che caratterizzò i rapporti tra Paesi sviluppati e Terzo mondo. E che oggi rischia di stabilirsi in modo permanente nel cuore di uno dei Paesi più industrializzati dell’Occidente. Alimentando di fatto una secessione silenziosa. E un grande paradosso: ciò che non riuscì ai più arrabbiati colonnelli bossiani rischia, infatti, di materializzarsi nella più generale indifferenza

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