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Ipo flop di Golden Goose, cosa ha combinato il fondo Permira

Perché Golden Goose non si quota più? Il ruolo del principale azionista, il fondo di private equity Permira. L'analisi di Alberto Gustavo Franceschini Weiss, presidente di Ambromobiliare, società di consulenza in finanza strategica

 

First reaction: Shock!

Fu il commento di Renzi dopo i risultati del referendum inglese sulla Brexit, ma è stato lo stesso commento che è girato nelle trading room delle banche d’investimento e delle Sim milanesi dopo che è apparsa la notizia che Golden Goose non si quota più.

Golden Goose si sarebbe dovuta quotare il 21 giugno, e la notizia è uscita il 18 giugno, 3 giorni prima del fatidico suono della “campanella”.

La ragione? “Il significativo deterioramento delle condizioni di mercato a seguito delle elezioni del Parlamento europeo (..) e la convocazione delle elezioni politiche in Francia”.

In realtà nessuno ci ha creduto.

Infatti, l’Ipo prevedeva un collocamento oscillante tra 520 e 560 mln di €, suddivisi in 420/460 milioni nelle tasche di Permira, tramite vendita di azioni “vecchie” e 100 mln – come aumento di capitale – che sarebbero entrati nelle casse aziendali di Golden Goose.

Il collocamento era già stato chiuso da vari giorni e aveva visto una domanda di azioni 4 volte superiore all’offerta, anche se nella parte bassa della “forchetta”, con un singolo investitore che si era prenotato ben 100 milioni.

L’operazione sembrava già felicemente conclusa, nonostante il fatto che Golden Goose sia attualmente indebitata con le banche per oltre 460 milioni e che 100 milioni di aumento di capitale avrebbero comunque lasciato un debito significativo, non certo in grado di consentire una crescita sana e duratura.

E allora perché si è ritirata? Varie sono le interpretazioni, ma le più “gettonate” sono 2: la prima è che la valutazione che il mercato borsistico ha attribuito a Golden Goose sia stata considerata “striminzita” dagli avidi partners di Permira: 8,5 volte l’Ebitda non è considerato sufficiente per chi è abituato a moltiplicatori del lusso superiori a 10. La seconda è che le vendite di sneakers Golden Goose non stiano andando come previsto e quindi Permira si sarebbe trovata a controllare una società che, dopo la pubblicazione di una ipotetica deludente semestrale 2024, avrebbe subito un crollo nel valore dell’azione.

E siccome Permira ha già “fregato” il mercato con Dr. Martens, le cui azioni in 3 anni hanno perso l’80% del valore, non avrebbe potuto permettersi un’altra figuraccia (eufemismo).

In entrambi i casi si tratta di avidità, solo ed esclusivamente di avidità. Infatti la struttura dell’operazione era totalmente sbilanciata verso l’azionista: l’80% del denaro raccolto dagli investitori sarebbe entrato nelle tasche del fondo Permira e solo il 20% sarebbe entrato nelle casse aziendali per ridurre il debito.

Occorre tener presente che Permira è un fondo di private equity, quindi un investitore temporaneo: nei prossimi 2/3 anni avrebbe dovuto immettere sul mercato le restanti azioni possedute e, per la legge della domanda e dell’offerta, avrebbe creato un’aspettativa di potenziale perdita di valore.

Questa è l’ulteriore conferma che per i fondi di private equity la borsa non è il giusto canale di smobilizzo dei loro investimenti quando detengono la maggioranza. I fondi di private equity normalmente comprano imprese in settori solidi e stabili o a bassa crescita, non soggetti a rischi tecnologici o di mercato, in grado di produrre importanti flussi di cash-flow. Le imprese vengono comprate sempre attraverso un cd “Leveraged Buy-Out” (anche “LBO”) cioè un consistente ricorso all’indebitamento bancario, che poi viene rimborsato grazie, appunto, ai flussi di cash-flow.

L’investimento è sempre di controllo totale, dura 4/5 anni, e poi le imprese vengono vendute. Questo perché i fondi di private equity sono a loro volta finanziati da grandi investitori istituzionali (ad esempio le assicurazioni) i quali, però, vogliono vedere ritornare i loro capitali in 5/6 anni.

In questo periodo le imprese partecipate avviano sempre un processo di razionalizzazione e/o di crescita per acquisizioni di altre società, in modo da creare gruppi più grossi.

Passato il periodo di 4/5 anni, le soluzioni per smobilizzare questi investimenti sono due: o si trova un acquirente per l’intero capitale (che può essere un gruppo industriale o un altro fondo di private equity), oppure si tenta la strada della quotazione, cedendo inizialmente una quota di minoranza e, successivamente, tutto il pacchetto.

Ai fondi di private equity non interessa la crescita futura, non interessa dove è la sede, quanti stabilimenti si chiudono o quanti dipendenti vengono lasciati a casa. Interessa solo ed esclusivamente il profitto e il tasso di redditività dell’investimento, il cd “IRR”.

Le statistiche su questo fenomeno evidenziano come le aziende che i private equity portano in quotazione sono quasi sempre straindebitate perché arrivano quasi tutte da operazioni di “LBO”. Considerando che la maggior parte di queste quotazioni avvengono con un collocamento prevalente di azioni vecchie di proprietà dei fondi di private equity, la quotazione non riduce quasi mai l’indebitamento, il che ne frena le potenzialità di crescita futura.

Diversa è la situazione delle imprese di proprietà dei fondi di venture capital, soprattutto di quelli americani, per cui le valutazioni stellari danno ampi margini di negoziazione con i nuovi sottoscrittori in sede di quotazione e, in più, la maggior parte non sono indebitate.

La borsa serve per finanziare la crescita e le quotazioni – su tutte le borse a livello mondiale – danno la massima soddisfazione agli investitori quando il socio di controllo è un imprenditore, che presenta al mercato una propria visione strategica di lungo termine e si vuole far affiancare da nuovi soci.

Se l’obiettivo è la vendita immediata, la borsa non va bene.

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