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Ma l’Italia si salverà davvero solo con il Green Deal?

La pandemia si è trasformata in un grande elettore per molti governi in carica. Ma non bisogna esagerare. Alla fine l’emergenza finirà. Ed allora il bilancio delle cose fatte e dei ritardi accumulati non potrà più essere rinviato. Il commento di Gianfranco Polillo Nel sentire i discorsi degli esponenti di governo, sembrerebbe che la principale…

Nel sentire i discorsi degli esponenti di governo, sembrerebbe che la principale preoccupazione italiana sia il green deal. Ossia l’ambientalismo elevato alla massima potenza. Gli investimenti del Recovery fund, si continua a ripetere, si concentreranno sullo sviluppo sostenibile oltre che sul digitale. C’è solo da dire che questa impostazione non fa che ripetere a pappagallo l’input della Commissione europea. La quale ha indicato, in una percentuale pari al 30 per cento, l’impegno di spesa necessario: sia per i progetti della “Next generation” che del quadro finanziario pluriennale (QFP). Ossia del normale bilancio europeo. Lungi da noi ogni critica rispetto alla necessità della salvaguardia ambientale. Il pericolo del riscaldamento globale incombe sulla nostra testa, così come l’inquinamento dei mari e delle acque, per non parlare del gas serra. E dei guasti che tutti questi elementi hanno determinato non solo in Italia, ma nel resto del Mondo.

Sennonché il tema è proprio questo. Chi sono stati e sono i principali artefici di queste nefandezze? L’Italia può essere considerata al pari non diciamo della Cina, ma di qualsiasi altro Paese Occidentale? Ed è qui che si manifesta la principale sorpresa. L’Italia infatti, rispetto al resto del Mondo, ha tanti difetti: è l’economia che cresce meno tra tutti i Paesi dell’OCSE, oltre che dell’Eurozona; ha il terzo debito più alto del mondo dopo Giappone e Grecia; un tasso di disoccupazione inferiore solo a quello spagnolo. E si potrebbe continuare. Ma quanto al rispetto dell’ambiente, non ha alcunché da invidiare ai più accaniti ambientalisti. Parola della Commissione europea.

Nel documento di base elaborato dai tecnici di Bruxelles (Scheda tematica per il semestre europeo – efficienza delle risorse) si dimostra che nei settori chiave del green deal l’Italia è ben più avanti dei propri partner. Il che, ovviamente, non significa che da qui al 2030 non dovrà intensificare gli sforzi. Ma che forse, prima di quella data, e sempre che ci si possa arrivare, ben altre saranno le urgenze. Nel campo dell’uso produttivo delle risorse naturali, infatti, l’Italia non è l’ultima ruota del carro, ma occupa il terzo posto, subito dopo l’Olanda ed il Lussemburgo. Il relativo indice è quasi il doppio della media europea. Tra i Paesi di maggiore dimensione è al primo posto. La Francia segue a due lunghezze, mentre la Germania è relegata alla penultima posizione, tra i Paesi più virtuosi.

Nel campo dell’eco-innovazione, dominato dalla Germania, le cose vanno meno bene. L’Italia si colloca al settimo posto: due avanti la media europea. Mentre la Francia e la Spagna, non riescono a reggere il ritmo medio dell’Europa a 28. Posizione leggermente migliore nel campo della produzione energetica. Qui siamo al sesto posto, ma ben avanti rispetto a Germania, Francia e Spagna. Con Parigi che non raggiunge, per così dire la sufficienza, collocandosi a ridosso (ma sotto) della media europea. Situazione, invece, capovolta nel campo della raccolta e smaltimento dei rifiuti. Qui è l’Italia a non avere la sufficienza, pur trovandosi in compagnia di Francia e Spagna. Roma in particolare dovrebbe aver contribuito, in modo determinante, a questo spiacevole stimma.

Cosa ci dicono questi dati? Danno dell’Italia un’immagine diversa: sia rispetto alla realtà prevalente che domina l’Europa, ma anche nei confronti delle prediche nostrane. Fin troppo sollecite nel prendere per oro colato tutto ciò che avviene a Bruxelles, senza porsi minimamente il problema della necessaria verifica. Da questo punto di vista l’Italia ha indubbiamente bisogno, come la maggior parte dei Paesi, di una buona cura del “verde”. Ma ancor di più di altri rimedi. Soprattutto la prospettiva di uno sviluppo che, ancor prima di essere sostenibile, deve essere “sviluppo”. Indispensabile per abbattere il debito pubblico e lottare contro un livello di disoccupazione, inevitabilmente, destinato ad esplodere. Altro che “decrescita felice”.

Ed invece la distonia è totale. Dall’Europa siamo disposti a prendere le fanfaluche ed ignorare le cose più serie. Si pensi ai soldi necessari per potenziare la sanità in vista di quello che può ancora capitare nella grande pandemia del coronavirus. Già mesi fa si poteva accedere ai finanziamenti del Mes: quei 37 miliardi appositamente stanziati per far fronte ai costi diretti ed indiretti legati alla battaglia contro il Covid-19. Con quelle risorse si potevano potenziare le strutture sanitarie dei territori meno dotati. Un esempio per tutti: la Campania. Lungimiranza che avrebbe consentito di rallentare quel lockdown strisciante che ha, finora, comportato il blocco dell’attività didattica, il divieto di feste ed assembramenti, la chiusura di bar e ristoranti. Il tutto motivato non tanto dalla maggior recrudescenza del virus, ma solo dall’insufficienza delle strutture sanitarie a disposizione.

Di fronte al rifiuto, seppur sempre più fievole dei 5 stelle, a causa dei loro mal di pancia ideologici, si sono persi mesi. No al Mes, si al Recovery Fund: si è continuato a ripetere. Da quel pozzo, apparentemente senza fondo, si possono prendere i soldi necessari anche per la sanità. Sarà così? Ne dubitiamo. Per mettere insieme i 750 miliardi della sua dotazione, la Commissione europea è stata costretta a raschiare il fondo del barile. De – finanziando precedenti programmi di intervento. Azzerandone altri. Tra questi: i 9,4 miliardi dell’Eu4Health: il programma sanitario concepito per la lotta contro le possibili epidemie. Scelta coerente, con la nascita del Mes. Nei programmi di spesa, che il Governo si appresta a varare, vi potrà essere anche un capitolo specifico per la sanità? E lo stesso sarà poi validato dalla Commissione europea? Questi sono i dubbi che rimangono.

Gli stessi che, a quanto sembra, turbano i sonni del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il quale ha iniziato una lenta marcia di avvicinamento verso la necessaria, seppur tardiva, ragionevolezza. Alla fine come del caso della Tav, è probabile che la realtà si imponga, nuovamente, sulle farneticazioni identitarie. Ma nel frattempo chi pagherà i danni di un colpevole ritardo, che poteva benissimo essere evitato? La pandemia si è trasformata in un grande elettore per molti governi in carica. Ma non bisogna esagerare. Alla fine l’emergenza finirà. Ed allora il bilancio delle cose fatte e dei ritardi accumulati non potrà più essere rinviato.

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