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Globalizzazione

È davvero giunta la fine della globalizzazione?

È più difficile riformare che rivoluzionare la globalizzazione. L'intervento di Battista Falconi.

 

Fedele alla sua linea terzista, ribadita con la decisione di non invitare l’Ucraina al G20, il premier indiano Modi ha ricordato che dalla pandemia è nato un “nuovo ordine mondiale”. Ma se il Covid è stato figlio della globalizzazione, adesso potremmo immaginare un futuro nel quale si ritorni a definire aree più ristrette di movimento per beni, persone e idee?

LA NECESSITÀ DI UNA GLOBALIZZAZIONE RISTRETTA

La necessità è giustificata dalla complessità delle dinamiche internazionali, incontrollabile e ingestibile per qualunque governo nazionale. Facciamo solo qualche esempio. Cina e Russia adottano due politiche opposte rispetto ai tassi di interesse, la prima li abbassa mentre Mosca li alza, così come le banche centrali europea e americana. Olanda e Germania soffrono la crisi: per la prima è stata addirittura evocata la recessione, mentre la seconda è in evidente stallo. Una crisi indotta anche dalle misure finanziarie ma che rimanda, più profondamente, a quella del modello di sviluppo perseguito dai paesi europei e avanzati, che investe pesantemente anche gli Stati Uniti.

Legittima, quindi, la tentazione di confrontarci con elementi di paragone più prossimi per cercare di dissolvere alcune delle molte nubi che si affacciano all’orizzonte. Per esempio, la concorrenza dei paesi mediterranei nei servizi al turismo, questione non nuova (sono decenni che i nostri operatori fanno i conti con le offerte low cost, non solo del bacino) che oggi assume una nuova attualità. Intanto politica, visto che il governo aveva annunciato record di arrivi e incassi che dovrà rivedere, ma ancor più per un rialzo dei prezzi finali che consegue a processi speculativi più che inflattivi. Qui entra in ballo una delle principali difficoltà che i governi nazionali devono affrontare: convincere settori della produzione e dei servizi ad accettare misure socialmente eque, necessarie e giuste che ledono interessi specifici, quali quelli delle banche sugli extra profitti, dei benzinai sui rialzi improvvisati, dei tassisti sull’ampliamento delle licenze, delle compagnie aeree sul contenimento dei prezzi in alcune tratte.

RIVOLUZIONE E RIFORMA

L’empasse, soprattutto per un governo che vuole presentarsi in modo innovativo come quello di Giorgia Meloni, passa per la differenza tra rivoluzione e riforma. La prima, come sanno gli storici, è paradossalmente più semplice da realizzare quando in un dato momento intervengano le condizioni necessarie a un cambiamento di stato. La riforma è invece un processo permanente, che incide in modo continuativo: che si parli di migrazioni, dove le politiche di contenimento si infrangono sul raddoppio degli sbarchi; che si parli di salario minimo e lavoro povero, con una manovra cui metter mano al rientro dalle ferie; che si parli dell’alluvione, prossima a diventare un’emergenza permanente quando il maltempo colpirà di nuovo le zone già colpite, dove le opere di ripristino e ricostruzione non sono ancora avvenute.

Tutte queste misure hanno un livello di difficoltà intrinseco non banale. Semplificando, potremmo dire che le campagne elettorali si fanno con le promesse e le opposizioni con le critiche, mentre i governi si fanno con gli annunci. Si dice quotidianamente quanto si intende fare con proposte soggette a iter normativi nei quali si perde parte dell’auspicata efficacia, laddove occorrerebbero interventi immediati. È una crisi strutturale della politica rispetto a due principi di realtà tra loro contrastanti, l’adattamento evolutivo e l’entropia, che determina oneri enormemente maggiori per implementare misure positive rispetto a quanto basta per danneggiare ciò che si è fatto.

Per questo l’uscita dalla globalizzazione e il ritorno a misure più minute e prossime sarà inevitabile. In particolare per l’annosa questione del clima, dove i grandi adattamenti e mitigazioni a livello globale cederanno sempre più il passo a opere di gestione del territorio. Il manico decisionale dovrà quindi passare dall’Unione Europea e dalle Nazione Unite agli stati nazionali e alle regioni.

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