I rivolgimenti internazionali degli ultimi tempi non coinvolgono solo le aziende tedesche impegnate sul fronte est-europeo o americano. Anche quelle esposte sui mercati asiatici devono confrontarsi con interrogativi fondamentali. Uno su tutti: cosa fare degli investimenti in Cina, dopo che l’esperienza russa ha mostrato quanto rischiosi siano gli affari con paesi autocratici?
Il tema è ormai all’ordine del giorno e non può essere più dilazionato. Le pressioni americane per alleggerire la posizione tedesca in Cina sono sempre più evidenti e vanno di passo con l’inasprimento dei rapporti fra Washington e Pechino. Anche su questo versante il governo tedesco ha provato a tergiversare, prendere tempo. Ancora qualche mese fa Olaf Scholz si era recato in visita ufficiale in Cina, ribadendo concetti e contratti in (quasi) perfetta continuità con l’era Merkel.
COM’È CAMBIATO IL RAPPORTO GERMANIA-CINA
Ma il clima era già cambiato: il pugno di ferro su Hong Kong, le minacce a Taiwan, le reiterate violazioni dei diritti umani (con qualche problema di immagine per aziende tipo Volkswagen e il suo stabilimento nello Xinjiang), le rigidità – poi superate – nella gestione della pandemia che hanno ingolfato le catene di approvvigionamento globali hanno seminato incertezza negli investitori tedeschi, il veleno più insidioso per il mondo degli affari. A questo si aggiungono le sanzioni secondarie americane.
E poi il faccia a faccia recente e improvviso fra Joe Biden e il cancelliere, avvenuto a Washington la scorsa settimana al riparo della presenza della stampa, in cui, secondo le informazioni trapelate, il dossier cinese ha avuto uno spazio non secondario. E qualche effetto quel vertice lo ha già prodotto se, pochi giorni dopo, Scholz ha sentito il bisogno di minacciare pubblicamente “conseguenze” qualora la Cina inviasse armi alla Russia per la guerra in Ucraina. “Ora siamo in una fase in cui stiamo mettendo in chiaro che ciò non deve accadere e sono relativamente ottimista che avremo successo con la nostra richiesta, ma dovremo verificare”, ha poi aggiunto il cancelliere, quasi a introdurre una nota di maggiore prudenza.
D’altronde la questione è delicata, come e più di quella con la Russia che è già costata alla Germania la sua pax energetica. Nel 2022, infatti, la Cina si è confermata per il settimo anno consecutivo come il primo partner commerciale della Germania con una quota che sommando importazioni ed esportazioni ha raggiunto i 297,9 miliardi. Lo storico alleato americano si è dovuto accontentare ancora del secondo posto con una somma di 247,8 miliardi. In Cina ci sono investimenti enormi delle aziende tedesche, il mercato cinese è fondamentale per l’export tedesco dopo che l’economia ha dovuto rapidamente rimodellare il suo modello di business nell’Europa orientale, e alla dipendenza energetica russa si va sostituendo quella cinese per le materie prime legate alla transizione energetica verso le rinnovabili.
L’INTERESSE PER IL SUD-EST ASIATICO
Eppure, sotto traccia qualcosa già si muove tra le imprese. Anche nel Sudest asiatico è iniziato, silenzioso, un riequilibrio degli impegni tedeschi e la sliding door vede protagoniste Cina (in uscita) e Vietnam (in ingresso).
Il Vietnam è il paese del momento. La città portuale di Kuy Nhon sembra la Shanghai di inizio millennio: i cantieri spuntano come funghi tra il verde lussureggiante dei campi di riso, pronti ad accogliere le imprese tedesche in uscita dalla Cina.
Lo conferma in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung un esperto, Michael Weckezer, rappresentante a Ho Chi Minh City (l’ex Saigon) dello studio legale Rödl & Partner: “Da qualche mese ci siamo trasformati di fatto da ufficio di consulenza aziendale ad agenzia di viaggio per le Pmi tedesche che vogliono smobilitare una parte dei propri investimenti cinesi”. La migrazione è iniziata, le catene di approvvigionamento si stanno orientando verso il Sudest dell’Asia dove crescono industrie manifatturiere grandi e competitive e la manodopera è meno cara che in Cina, fattore quest’ultimo sempre rilevante quando si tratta di operare fuori dai confini nazionali: in Vietnam la media del salario è di 300 dollari al mese. Il paese ha inoltre sviluppato numerosi accordi di libero scambio che consentono a tutti di evitare le sanzioni Usa. Anche agli stessi cinesi.
Perché non sono solo i tedeschi o gli europei ad aver scoperto il Vietnam. Anzi, secondo Alexander Götz, general manager di Fischer Asia (filiale dell’azienda tedesca leader nel settore dei sistemi di fissaggio), gli europei farebbero bene ad affrettarsi perché questa area attira gli occhi di imprenditori da tutto il mondo. La tendenza è delocalizzare da Pechino, impiantando le fabbriche in Vietnam e iscrivendo le sedi legali a Singapore. La città-Stato, già piazza finanziaria globale, sta diventando sempre di più il centro di una rete industriale che, oltre al Vietnam, coinvolge un arco di Stati che l’Economist ha definito Altasia: quattordici economie asiatiche sono pronte a sostituire la Cina per essere al centro della catena di approvvigionamento globale in mezzo alle tensioni sino-statunitensi. Oltre a Vietnam e Singapore ne fanno parte Giappone, Taiwan, Corea del Sud, India, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia, Laos, Cambogia, Bangladesh e Brunei. Sebbene nessuno di loro possa sostituire la Cina come singola economia, il gruppo potrebbe essere competitivo quando i produttori globali cercheranno nuove basi produttive al di fuori della Cina, a causa dei rischi geopolitici con gli Stati Uniti, ha scritto l’Economist. È il riscatto del Sudest, con le sue “tigri” asiatiche degli anni Novanta poi azzoppate dalla bolla finanziaria e dall’ascesa della Cina. Oggi è proprio la crisi di Pechino ad alimentare la loro rinascita ed è qui che le imprese tedesche stanno ancora timidamente cercando una nuova casa.
VOLKSWAGEN E BASF NON DIMENTICANO LA CINA
Non tutte però. C’è chi dalla Germania tiene fede alla rotta cinese. E si tratta di nomi grossi: oltre a Volkswagen, che però delocalizza anche negli Usa, c’è Basf. Il colosso della chimica ha reso noto un piano di riduzione dei costi a causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi energetici in Europa e del rallentamento dell’economia che prevede il taglio di 2600 posti di lavoro in tutto il mondo, due terzi dei quali in Germania. A Ludwigshafen, dove Basf ha la sua sede, è in chiusura un impianto per la produzione di ammoniaca a causa degli elevati costi energetici. I dipendenti interessati sono circa 700.
Ma quel che muove il ceo della società renana Martin Brudermüller non è la sirena dell’IRA americana, quanto l’insoddisfazione per la burocrazia e le regolamentazioni eccessive dell’Europa. Tanto è vero che, a fronte dei tagli nel Vecchio Continente, Basf ha annunciato investimenti futuri in un’altra area del mondo. Non a Washington, ma nella più problematica Pechino.
Brudermüller ha tracciato un quadro a tinte fosche per l’economia tedesca ed europea in generale. La competitività della regione europea risente sempre più dell’eccesso di regolamentazione, ha detto, l’Europa soffre sempre più di procedure di approvazione lente e burocratiche e, soprattutto, di costi elevati per la maggior parte dei fattori di produzione. Per molti anni, tutti questi fattori hanno rallentato la crescita del mercato in Europa rispetto ad altre regioni del globo e a questo si aggiungono adesso i prezzi elevati dell’energia che ne stanno mettendo a dura prova la redditività e la competitività.
Mentre la produzione chimica in Europa è in forte calo, il mercato cinese è in crescita, ha ripreso Brudermüller guardando i dati di casa propria: l’abbandono della politica dello zero-covid da parte del governo sta incrementando la domanda e Basf prevede un risultato migliore rispetto allo scorso anno già dalla seconda metà del 2023, soprattutto grazie agli effetti di recupero in Cina. “In un mondo multipolare, l’impegno in Cina è il modo giusto per creare vicinanza ai clienti”, ha sottolineato il ceo, preparando così strategicamente il terreno per la successiva esternalizzazione della produzione in Estremo Oriente.
Da un punto di vista economico, il capo degli “Adeliners” (come si definiscono i dipendenti Basf) può non avere torto, ma è consapevole di giocare una scommessa audace: “Non dico che gli investimenti in Cina siano privi di rischi”, ha detto, “ma le opportunità che vediamo sono superiori ai rischi”.