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Tutte le aziende tedesche che si fanno sedurre dagli aiuti di Biden

Le aziende tedesche - come Volkswagen, Bmw e Siemens - pianificano grandi investimenti negli Stati Uniti per approfittare dell'Inflation Reduction Act, anche perché i costi energetici ora sono alti a differenza di quanto avviene negli States. L'approfondimento di Pierluigi Mennitti da Berlino

 

L’ultima azienda tedesca ad annunciare la svolta americana è stata Volkswagen. Un investimento di 2 miliardi di dollari per realizzare con il marchio Scout una nuova fabbrica vicino Columbia, nella Carolina del Sud. Obiettivo: produrre pick-up e suv elettrici e allargare la fetta di mercato negli States. Nei piani, l’ipotesi di costruire una fabbrica di batterie.

VOLKSWAGEN E BMW SI FANNO PRENDERE DALL’IRA

Anche Audi, per restare nell’ambito delle aziende automobilistiche ma pure nello stesso gruppo, ha gli Usa nel mirino. Il ceo della casa di Ingolstadt Markus Duesmann ha confermato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung il progetto di costruire uno stabilimento negli Stati Uniti per produrre auto elettriche: “Non abbiamo ancora preso una decisione concreta”, ha detto. Sul tavolo diverse opzioni, dalla costruzione di una fabbrica propria a un investimento comune con la casa madre Volkswagen. “Di sicuro c’è  che il mercato statunitense è molto importante e che la politica di sovvenzioni di Washington rende i piani di investimento molto attraenti”, ha aggiunto.

Chi invece negli Usa già da tempo annunciato una massiccia campagna di investimenti nel settore elettrico è l’altro colosso automobilistico bavarese, Bmw, che ha nella Carolina del Sud il suo più grande stabilimento al di là dell’Atlantico: è dello scorso autunno la notizia dell’impegno di 1,7 miliardi di dollari per la realizzazione di veicoli elettrici da destinare a un nuovo impianto e alla riconversione di quello esistente.

LE AZIENDE TEDESCHE GUARDANO A OVEST

L’acronimo che agita i sonni del governo tedesco, ma anche quello di molti esecutivi europei, è IRA, Inflation Reduction Act, il piano di sussidi di quasi 400 miliardi di dollari varato dall’amministrazione di Joe Biden per favorire nuove tecnologie nel rispetto della protezione del clima, come ad esempio fabbriche di batterie, semiconduttori e auto elettriche. Una calamita per aziende come quelle tedesche, per quasi due decenni abituate a conquistare mercati globali grazie a capacità proprie e a una concomitanza di circostanze favorevoli, e ora strette da problemi derivati dalle ripetute crisi degli ultimi anni. L’Istituto di ricerca economica Ifo li ha riassunti in un elenco inquieto: energia a costi elevati, carenza di manodopera qualificata e non, colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento internazionali (per ricevere alcuni modelli di automobile i clienti sopportano tempi di attesa di un anno e più), aumenti dei costi delle materie prime.

Così, dopo anni di teste rivolte a est, verso la Russia e soprattutto verso la Cina, ora gli sguardi degli industriali tedeschi volgono a ovest, riscoprono l’America e fanno venire il torcicollo al governo di Berlino.

I PIANI DI SIEMENS

Siemens Energy fa sapere di non voler restare esclusa dal previsto boom dell’idrogeno a stelle e strisce, finanziato dagli incentivi dell’IRA. “Il mercato è attraente ed è molto probabile che prima o poi realizzeremo un impianto negli Stati Uniti”, ha confessato all’Handelsblatt la presidente del Cda Anne-Laure Parrical de Chammard, precisando che un futuro impegno oltre Atlantico non significherà però un disimpegno dalla Germania. La giga factory in costruzione a Berlino vedrà la luce come previsto in estate: qui per la prima volta saranno prodotti su larga scala i cosiddetti elettrolizzatori PEM, i cui costi elevati sono uno dei motivi per cui la produzione di idrogeno è ancora costosa. Ma un portavoce del gruppo aggiunge: “Con il nostro concetto siamo già ben posizionati per il mercato statunitense, il nucleo degli elettrolizzatori, gli stack, sono prodotti a Berlino e potranno poi essere assemblati negli Usa insieme a partner regionali”.

Di particolare interesse per l’industria del settore è il fatto che con l’IRA gli Stati Uniti intendano sovvenzionare l’idrogeno a tre dollari al chilo, osserva l’Handelsblatt. E secondo gli addetti ai lavori, questo renderà redditizi molti progetti che in passato erano economicamente insostenibili.

Siemens Energy non è d’altronde l’unica azienda a concentrarsi sugli Stati Uniti. Secondo le informazioni fornite da ambienti del suo consiglio di vigilanza, anche l’ex società madre Siemens vuole aumentare la produzione negli Usa in tutte le principali unità aziendali. E piani simili sono stati annunciati da importanti fornitori del settore automobilistico come Schaeffler e Bosch.

IL PROBLEMA DEI PREZZI DELL’ENERGIA

Tuttavia le tentazioni delle sovvenzioni dell’IRA non spiegano tutto. Un fattore importante è anche quello dei costi dell’energia. Le aziende tedesche (come anche le famiglie) erano molto favorite dai bassi prezzi delle forniture energetiche russe. L’Ostpolitik degli anni Novanta e Duemila, diversa da quella inaugurata in piena Guerra fredda da Willy Brandt alla fine degli anni Sessanta, è stata principalmente una Gaspolitik, fondata sui gasdotti pianificati da Vladimir Putin e Gerhard Schröder e realizzati nell’era di Angela Merkel.

L’aggressione di Mosca all’Ucraina ha spento l’idea di “Gerussia”, e le esplosioni nei fondali del Mar Baltico che hanno messo fuori gioco i Nord Stream 1 e 2 hanno fatto capire a Berlino che quei tempi non torneranno più. Rinascita del carbone, risparmio energetico e rigassificatori hanno scongiurato nell’inverno tedesco carenze di rifornimenti, ma a tutti è chiaro che il tempo dell’energia a basso costo è finito per sempre.

Un recente sondaggio della Camera di commercio e industria tedesca (DIHK) ha rivelato che una azienda tedesca su dieci sta pianificando di spostare la produzione in altri paesi, e la meta preferita è proprio il Nord America. E tra le ragioni principali di questa scelta c’è il costo dell’energia. Indicazioni analoghe arrivano da un’altra indagine, questa volta della Camera di commercio tedesco-americana, secondo cui solo il 17% degli imprenditori tedeschi interpellati sostiene che gli incentivi dell’IRA siano la motivazione principale degli investimenti programmati.

“Probabilmente aumenteranno le preoccupazioni di molti osservatori secondo i quali un numero maggiore di aziende tedesche potrebbe delocalizzare la produzione negli Stati Uniti, dove i costi dell’energia sono notevolmente inferiori rispetto alla Germania”, ha commentato il sito della tv regionale bavarese Bayerischer Rundfunk, Land particolarmente colpito dalla fuga verso gli States.

LA FUGA VERSO GLI STATES

Il corteggiamento delle imprese tedesche da parte delle autorità americane, anche quelle locali, era d’altronde partito ben prima che dell’IRA si avesse sentore. Oltre all’energia a basso costo, numerosi Stati americani, soprattutto del Sud, avevano già messo sul piatto agevolazioni fiscali e altri aiuti.

Nell’autunno scorso, un’inchiesta dell’Handelsblatt faceva già il punto interpellando alcuni amministratori americani. “Recentemente abbiamo avuto i costi energetici più bassi degli Stati Uniti in undici trimestri su quattordici”, dichiarava al quotidiano economico Kevin Stitt, governatore dell’Oklahoma. E il Segretario al Commercio della Georgia, Pat Wilson, sosteneva un’argomentazione simile: “I nostri costi energetici sono bassi e le reti sono stabili”, spiegava, “inoltre l’eliminazione del carbone è ormai cosa fatta e il nostro Stato collegherà alla rete due nuove centrali nucleari entro il 2024”. Wilson concludeva: “Le aziende che vengono in Georgia riducono la loro impronta climatica”. E l’Handelsblatt confermava: “Il corteggiamento ha avuto successo: numerose aziende tedesche stanno pianificando di stabilire o espandere le loro sedi negli Stati Uniti”. E non solo quelle tedesche. Due settimane fa Tesla ha annunciato che costruirà le batterie negli Stati Uniti invece che nel Brandeburgo, come previsto in precedenza.

L’EUROPA DEVE DAVVERO TEMERE L’IRA AMERICANA?

Toccherà rassegnarsi? Non è detta l’ultima parola. Almeno a dar retta a una recentissima analisi del think tank europeo Bruegel, riportata nel fine settimana dall’agenzia Reuters, secondo cui l’Inflation Reduction Act deve preoccupare meno gli europei. I ricercatori rilevano che il sostegno dell’Ue sia già pari o addirittura superiore rispetto ai soldi dell’IRA e che il problema non sia nella quantità, ma nella qualità degli aiuti. Per scongiurare il rischio che il trasferimento di alcune aziende inneschi una fuga in massa, suggerisce il Bruegel, “l’Unione Europea deve rimanere competitiva puntando sull’efficienza dei processi di permitting e cercando di sfruttare la vicinanza con i clienti e il prezzo dell’energia”.

L’azienda chimica Basf ha sottolineato che i crediti d’imposta americani offrono un incentivo migliore per gli investimenti rispetto agli aiuti europei una tantum, osserva David Kleimann, ricercatore dell’istituto europeo, quindi “la principale conclusione che possiamo trarre è che l’IRA ci ha aiutato a fare un bilancio di ciò che stiamo effettivamente facendo bene e dove possiamo migliorare, ad esempio tagliando la burocrazia o aumentando i sussidi all’innovazione”.

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