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Vi spiego il flop del governo con la tassa sugli extraprofitti delle banche (che ora brindano)

Ecco come è stata cambiata l'imposta sugli extraprofitti delle banche e perché il governo ha fatto comunque una figuraccia. L'analisi di Giuseppe Liturri.

C’è solo una cosa peggiore di una tassa. Annunciarla, fare arrabbiare chi dovrebbe versarla, farsi prendere di mira dalla grande stampa internazionale e correggerla fino a quasi azzerare i potenziali introiti. Risultato finale: contribuenti arrabbiati, l’Europa che ci deride e le casse vuote.

È il riassunto della poco nobile vicenda della tassa sugli extraprofitti delle banche. Una parabola cominciata con rulli di tamburi e squilli di fanfare la sera del 7 agosto e terminata ingloriosamente giovedì 5 ottobre con la conversione in legge del Decreto Legge “Asset” n. 104 il cui articolo 26 contiene proprio quella norma.

IL FALLIMENTO DEL GOVERNO SUGLI EXTRAPROFITTI DELLE BANCHE

È finita ingloriosamente  per il governo, perché le banche hanno ottenuto la facoltà di non versare l’importo dovuto, cioè il 40 del maggior margine di interesse del 2023 rispetto al 2021 (aumentato del 10%), purché non superiore al 0,26% degli attivi ponderati per il rischio, cioè alleggeriti dei titoli di Stato. Sarà sufficiente che nel 2024, in sede di approvazione del bilancio 2023, sia destinata a riserva non distribuibile una quota di quell’utile pari ad almeno 2,5 volte l’imposta potenzialmente dovuta. E nelle casse dello Stato non arriverà nemmeno un centesimo.

ALLO STATO NEMMENO UN CENTESIMO

Perché è questo lo scenario più probabile. Perché una banca forte patrimonialmente o con utili elevati non avrà problemi a mantenere inalterata la sua politica di distribuzione di dividendi e, allo stesso tempo, costituire la riserva “salvacondotto”. Anche destinando a questo scopo, riserve e utili degli anni precedenti. Quale amministratore sarebbe così sprovveduto da versare milioni di euro, sottraendoli al patrimonio della banca, quando uno dei motivi per i quali le banche hanno contestato la tassa è proprio la necessità di rafforzarsi patrimonialmente? Cosa che verosimilmente faranno, senza peraltro subire contraccolpi sulla distribuzione di dividendi, comunque possibili per una banca solida, secondo i piani prestabiliti. Banche deboli patrimonialmente saranno a maggior ragione propense a non versare proprio per rafforzare il patrimonio della banca. In questo caso l’amministratore che decidesse di versare la tassa sarebbe esposto anche alle contestazioni degli azionisti, per un comportamento imprudente che danneggerebbe la solidità patrimoniale della banca, pur di distribuire dividendi.

Insomma, un perfetto cul de sac in cui le banche hanno infilato il governo dopo un asfissiante pressing mediatico durato circa 40 giorni in cui abbiamo letto i peggiori stravolgimenti della realtà, pur di arrivare all’obiettivo, peraltro legittimo, ci mancherebbe, di versare meno. Sono arrivate perfino a minacciare, nemmeno troppo velatamente, conseguenze sugli acquisti di titoli di Stato.

UN SILENZIO TOMBALE

Curiosamente, quasi a rendere al governo l’onore delle armi e non infierire troppo a vittoria ottenuta, sulla vicenda è calato un silenzio tombale. Non conviene alle banche, che hanno portato a casa il risultato, e non conviene al governo per non mostrare all’opinione pubblica che ha gettato al vento una clamorosa occasione per incassare una tassa che aveva – almeno in teoria – solide fondamenta economiche e giuridiche, come abbiamo spiegato in dettaglio qui, pur avendo da subito criticato il governo per le modalità dell’annuncio e per come era stata strutturata la tassa.

Si è trattato di un colpo di sole ferragostano – efficace solo per sottrarre all’opposizione l’attenzione mediatica che aveva conquistato con la vicenda del salario minimo –  e sono bastate le prime serate fresche di inizio ottobre per farlo dimenticare.

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