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Perché gli strepiti dei banchieri su imposta e titoli di Stato sono criticabili

Alcuni argomenti contro l'imposta sui cosiddetti extraprofitti delle banche destano un allarme francamente ingiustificato sui titoli pubblici. L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Da sabato 26 è in circolazione una leggenda: le nostre eroiche banche impegnate in prima linea nel sostegno del mercato dei Btp, potrebbero ricevere dalla sovraimposta sugli extraprofitti un terribile colpo e non accorrere più numerose alle aste del Tesoro. Ci permettiamo di sostenere il contrario e dimostrare di seguito che si tratta, appunto, di una leggenda. Qualcosa a cavallo tra immaginario e reale, ma platealmente esagerato ed alterato.

Partiamo dal fatto che tra i tanti dossier scottanti sul tavolo del Presidente Giorgia Meloni, che da lunedì sono tornati sotto i riflettori, c’è quello della conversione del decreto legge che disciplina, tra l’altro, il contributo straordinario sugli extraprofitti a carico delle banche.

Un iter che è già partito in modo abbastanza travagliato con una strana serpentina, perché pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 10 agosto è stato poi presentato dal Governo alla Camera l’11 agosto che l’ha poi subito restituito al Governo per consentirgli di ripresentarlo il giorno stesso presso il Senato. E da qui partirà la conversione che si preannuncia un percorso non facile, tante sono le ipotesi di modifica che sono state informalmente avanzate nelle ultime settimane.

Sabato 26, in preparazione del confronto ormai imminente, sul Sole 24 Ore campeggiava il titolo “Extraprofitti e banche, rischio boomerang sui titoli di Stato”, seguito a ruota domenica da un’intervista in cui il ministro degli esteri e vicepremier Antonio Tajani ha chiesto di escludere dalla tassa sugli extraprofitti i titoli di Stato e le piccole banche, aderendo alla tesi del rischio per i TdS.

Gli argomenti portati a sostegno sono quelli legittimamente attribuibili al fronte delle banche ma, anche nel modo in cui sono presentati, destano un allarme francamente ingiustificato sui titoli pubblici. Stupisce leggere di una inesistente “modifica della tassazione dei proventi dei titoli di Stato”, quando, come facilmente dimostrabile, la sovraimposta colpisce non solo i Tds ma i proventi di qualsiasi obbligazione. A pensare male, si intravede un rozzo tentativo di ricatto da parte dei banchieri, che minacciano di disertare le prossime aste di titoli, pur di ottenere un depotenziamento della sovraimposta.

Ora, è pur vero che – e su queste colonne non abbiamo certo lesinato le critiche – quel decreto abbia numerosi punti deboli sia nel metodo che nel merito. Nel metodo, tutti ricordano quella conferenza stampa un po’ abborracciata post Consiglio dei ministri di lunedì 7 agosto. Nel merito, quel decreto rischia di non superare i paletti che la Corte Costituzionale, con una sentenza del 2015, ha fissato per impedire che venissero violati i principi di eguaglianza e di capacità contributiva. Uno fra tanti, è la necessaria presenza di meccanismi per impedire la traslazione a valle sui consumatori, in questo caso sui correntisti, della maggiore imposta. E nel decreto non c’è alcuna traccia di tale meccanismo.

Ma, a leggere le presunte doglianze veicolate sul Sole, ci sembra che i banchieri si siano infilati in un vicolo cieco, perché quegli argomenti sono francamente molto deboli. È come se la foga di marcare il territorio della trattativa abbia portato a “provare troppo”, direbbe un avvocato. Ragion per cui ci attendiamo nei prossimi giorni argomenti ben più robusti da parte dell’ABI, il cui Presidente Antonio Patuelli ha adottato finora un profilo molto basso.

Infatti, il ragionamento parte dal presupposto (vero) che il contributo straordinario sia prelevato anche sugli interessi attivi che le banche incassano detenendo titoli di Stato. Da qui il presunto boomerang che potrebbe colpire le finanze pubbliche, a causa del disincentivo delle banche a comprare titoli nelle prossime aste.

Ma non si capisce perché – colpite dal contributo straordinario – le banche debbano sottopesare proprio i titoli di Stato, decisamente attraenti come profilo rischio-rendimento. Solo perché l’emittente di quei titoli è anche il soggetto che incasserà la tassa? Non si coglie davvero il nesso causale. Le banche sceglieranno sempre gli impieghi più remunerativi, a prescindere dall’emittente, perché la tassa colpisce in modo indiscriminato i proventi di tutti gli strumenti finanziari e quindi non ne altera il profilo di convenienza relativa. L’eventuale esclusione creerebbe un regime di maggior favore di cui però i proventi di Bot e Btp non godono quando sono assoggettati, come tutte le altre obbligazioni, alla tassazione con l’aliquota ordinaria IRES, oltre all’addizionale.

E né si può ragionevolmente temere che le banche disertino le prossime aste dei titoli, cosa che invece è già avvenuta negli ultimi 12 mesi. Anzi è prevedibile che acquistino nuovi titoli per beneficiare delle cedole a tassi più alti. Da maggio 2022 a maggio 2023 hanno ridotto le consistenze di titoli pubblici da 428 a 405 miliardi, mentre sono state famiglie ed imprese a incrementarle in misura eccezionale pari a 100 miliardi, passando da 148 a 248 miliardi. Al punto che è finita inosservata pure la ritirata degli investitori stranieri da 660 a 628 miliardi.

Il boomerang è già passato e non se n’è accorto nessuno, perché i titoli di Stato continuano ad essere un buon affare per tutti.

Il contributo del 40% verrà prelevato sul margine di interesse 2023 che eccede del 10% quello del 2021 (è improbabile che il confronto tra 2022 e 2021, pure possibile, restituisca un dato superiore). E quell’eventuale maggior margine è il risultato di un coacervo di tante cose: tassi medi sugli impieghi (tra cui i TdS), tassi medi sulla raccolta e, soprattutto, volumi intermediati. Extraprofitto – se e quando emergerà – è l’intero, non la somma dei singoli, tra cui i titoli di Stato, come invece si sostiene sul Sole. E se ci fossero in portafoglio delle banche titoli pubblici con rendimenti bassi, semplicemente non ci sarà alcun extraprofitto da tassare. Anzi, è molto probabile che oggi i titoli di Stato offrano un modesto contributo al margine di interesse delle banche, proprio perché negli ultimi 12 mesi – quando i tassi all’emissione sono notevolmente aumentati – lo stock di titoli in portafoglio alle banche è diminuito. È quindi ragionevole ipotizzare che, non avendo fatto il pieno di nuovi titoli con cedole più ricche, i proventi da TdS siano relativamente modesti, proprio perché relativi a titoli emessi prima dell’estate 2022 e quindi con cedole a tassi più bassi.

È un dato accertato che le banche italiane siano state le più restie a trasferire su depositi e conti correnti gli aumenti di tassi decisi dalla Bce. Da qui deriva la crescita – in alcuni casi anche fino al raddoppio – del margine di interesse delle banche. In altre parole, nella generalità dei casi, le banche sono state più rapide nel far salire i tassi attivi rispetto ai tassi passivi, anche perché attivo e passivo avevano una differente sensibilità al rialzo dei tassi. È il normale mestiere delle banche. Se poi questi maggiori margini siano “ingiusti” come definiti da Giorgia Meloni, e quindi meritevoli di una tassazione aggiuntiva, sarà probabilmente deciso dalla Corte. La forbice tra tassi attivi e passivi si è aperta anche per la scarsa concorrenza tra le banche nel disputarsi la liquidità dei correntisti, che a sua volta dipende dall’eccesso di liquidità immesso nel sistema dalla Bce a partire dal 2015 e ridottosi solo in minima parte. Come ha recentemente fatto notare un articolo del Financial Times, se la liquidità è fornita in abbondanza dalla banca centrale, che bisogna c’è di raccoglierla tra i depositanti a colpi di aumento di tassi?

Sembra anche eccessivo il peso attribuito al rischio per gli investitori derivante dal paventato pericolo di cambi di tassazione ad opera “del governo di turno”. Infatti anche questo è un allarme ingiustificato perché la Costituzione pone dei precisi limiti, ben interpretati dalla Corte solo pochi anni fa. Siamo ancora uno Stato di diritto, dove non basta un DPCM per imporre una tassa.

In definitiva, ci sono tanti validi argomenti per cominciare la partita del negoziato tra Stato e banche, ma questa entrata a gamba tesa sui titoli di Stato è da cartellino “rosso” diretto. Sembra più un ricatto di qualche banchiere arrabbiato per i (modesti) tagli che subiranno i dividendi per i suoi azionisti.

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