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Ecco come Eurostat sbugiarda gli allarmi della Ragioneria sul Superbonus

Che cosa ha detto in Parlamento il rappresentante di Eurostat, Luca Ascoli, sull'impatto del Superbonus per i conti pubblici. Parole ben diverse da quelle della Ragioneria generale dello Stato... L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Il caos sul Superbonus 110% per l’efficientamento energetico degli edifici è stato generato da un clamoroso errore di stima del valore dei lavori e dei potenziali beneficiari, oltre che da altrettanto clamorosi buchi nel sistema dei controlli preventivi per accedere all’agevolazione.

COSA HA DETTO ASCOLI DI EUROSTAT

Inoltre la disputa per la definizione come “pagabili” e “non pagabili” dei crediti di imposta da bonus edilizi è davvero una questione di lana caprina. Una distinzione di natura contabile il cui impatto sui nostri conti è stato presentato come un meteorite devastante e che invece il rappresentante di Eurostat, Luca Ascoli, proprio ieri ha voluto sfatare. “L’impatto sul deficit dello Stato a lungo termine è esattamente lo stesso, sia che il credito sia definito “non pagabile” che “pagabile””, ha testualmente affermato Ascoli. “L’impatto è solo sul profilo temporale”, ha concluso e, in ogni caso, “stanno trattando con ISTAT”. Nel timore di essere stato poco chiaro, poco prima del termine dell’audizione ha ulteriormente ribadito che l’impatto sullo stock di debito pubblico è inesistente e la distinzione impatterebbe solo sul deficit di ciascun anno (aumentandolo in alcuni anni e diminuendolo in altri, a seconda del profilo temporale di contabilizzazione).

COSA HA SBAGLIATO LA RAGIONERIA GENERALE

Insomma, come spesso accade, l’impressione che se ne trae è che a Roma (segnatamente alla Ragioneria Generale dello Stato) si sono rotti la testa da soli e se la sono pure fasciata, seminando panico su mitologici “impatti di finanza pubblica”. Vien da pensare che le stiano provando tutte pur di tenere a freno qualcosa che è oggettivamente sfuggito di mano, ma che non può ignorare il legittimo affidamento del contribuente su una norma peraltro cambiata più volte in corso d’opera.

Sono queste le conclusioni di due audizioni svoltesi in Commissione Finanze del Senato, il 2 febbraio e ieri pomeriggio, nell’ambito di un’indagine conoscitiva sugli strumenti di incentivazione fiscale con particolare riferimento ai crediti di imposta.

Giovedì 2, il direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, Giovanni Spalletta, ha raccontato  la storia di tutti gli incentivi fiscali erogati sotto forma di credito di imposta negli ultimi anni.

Spicca l’anomalia dei bonus edilizi, per i quali l’ultima previsione aggiornata del Mef sale a 110 miliardi complessivi, spalmati fino al 2026, rispetto ai 72 miliardi della stima iniziale. Ben 38 miliardi in più, 25 dei quali sono imputabili al Superbonus 110%, che è passato da 36 a 61 miliardi (destinati ad incrementare per tenere conto dei dati di dicembre).

COSA È ACCADUTO?

Ma cosa è accaduto? In teoria lo strumento era quello giusto. Infatti, i tecnici hanno colto l’occasione per allargare lo sguardo al tutto il sistema dei crediti di imposta di cui, in premessa, tessono le lodi perché “consentono di determinare ex ante l’ammontare del beneficio e di monitorare nel tempo la spesa in termini di risorse stanziate”. Peccato che, come vedremo, ciò sia stato vero per tutti i crediti tranne che per quelli relativi ai bonus edilizi.

Invece altre tipologie di agevolazioni fiscali “non consentono di determinare in via preliminare e astratta il reale “vantaggio fiscale” per il singolo contribuente e l’effettiva “spesa” per l’Amministrazione”.

Pur essendo una tipologia di agevolazione utilizzata in innumerevoli occasioni, anche per interventi di modesta entità, i crediti di imposta per bonus edilizi, per transizione 4.0/ricerca e sviluppo, per investimenti nel Mezzogiorno e per i costi di energia e gas delle imprese, hanno rappresentato il 60% delle compensazioni eseguite dai contribuenti nel 2022. Vanno quindi esaminati congiuntamente per coglierne le differenze e comprendere quanto accaduto ai bonus edilizi.

GLI UTILIZZI DEI CREDITI D’IMPOSTA

Per quanto riguarda il credito di imposta per Transizione 4.0 a beneficio di investimenti materiali ed immateriali ad elevata digitalizzazione, finanziato dal PNRR a partire dal 2020, tutto sembra stia filando liscio come l’olio. L’utilizzo del credito è stato pari a 1 miliardo nel 2020 e 5,6 miliardi nel 2021. In proiezione, la stima dell’utilizzo nel triennio coperto dal PNRR (2020, 2021, 2022) dovrebbe raggiungere i 13,5 miliardi, in linea con la previsione di 13,3. Va sottolineato che gli investimenti in impianti e macchinari finanziati da Transizione 4.0 sono quelli che hanno contribuito a tenere in piedi il PIL del Paese. Secondo i dati di Federmacchine, il consumo di macchine del quadriennio 2020-2023 è aumentato del 59% rispetto a quello del 2012-2015.

Il credito di imposta per ricerca e sviluppo sta addirittura tirando meno rispetto alla previsione di 2 miliardi.

Il credito di imposta per investimenti nel Mezzogiorno sta dando buoni risultati. Infatti la valutazione d’impatto mostra che la misura è stata efficace nell’incentivare gli investimenti ed i livelli di occupazione, che risultano aumentati nel periodo 2018-2020. Si stima che 1 euro di risorse pubbliche abbia generato 1,1 euro di investimenti aggiuntivi.

In sintesi, per le agevolazioni esaminate finora, il credito di imposta non ha tradito le aspettative e, soprattutto, non ha tradito i conti pubblici. Invece, a proposito dei bonus edilizi, si apre un buco nero. Leggiamo che “i contribuenti hanno beneficiato delle agevolazioni in misura sensibilmente superiore alle attese, con conseguenti maggiori oneri rispetto alle risorse impegnate a legislazione vigente in occasione dell’introduzione delle agevolazioni” e che questi maggiori oneri determineranno minori incassi di imposte dirette, per gli anni 2023-2026, “compresi tra 8 e 10 miliardi”.

La causa? Dal Mef non hanno dubbi. “Una misura del beneficio molto elevata (comunque superiore al costo) e presidi di controllo ridotti sono suscettibili in generale di introdurre distorsioni che indeboliscono l’efficacia degli interventi”. Parole che giungono a consolidare i dubbi che da tempo incombono su tutta la vicenda. Da un lato una percentuale così elevata, elimina il conflitto di interessi tra committente e fornitore, elemento essenziale per la compressione della spesa. Sul punto specifico, un recente rapporto dell’ENEA rileva che i costi specifici unitari di alcuni beni agevolati col Superbonus risultano in “parecchi casi circa il doppio” di quelli finanziati con altre misure, a causa, “probabilmente anche della più elevata aliquota di detrazione”. Dall’altro l’assenza di “specifici presìdi di garanzia”, come visti di conformità e l’asseverazione della congruità dei prezzi, arrivati solo con grande ritardo a proposito dei bonus diversi dal Superbonus. È stato questo l’anello mancante – su cui i tecnici del Mef puntano il dito – che ha portato la circolazione non regolamentata dei crediti tramite cessioni a diventare fonte di frodi. Non le cessioni in sé. Non a caso uno dei primi interventi del governo Draghi è stato quello di introdurre l’obbligo di visto di conformità e l’asseverazione della congruità delle spese sostenute.

UN DISASTRO ANNUNCIATO, MA…

Insomma, un disastro annunciato per i conti pubblici reso possibile da un incredibile livello di sprovvedutezza nella definizione della disciplina della circolazione dei crediti. A pensar male, ma a volte ci si azzecca, sembra quasi che chi ha concepito la norma (il superbonus 110% fu varato dal governo Conte 2 ad agosto 2020) abbia intenzionalmente voluto affossare la circolazione dei crediti, anziché incentivarla.

Ma dai numeri forniti dal Mef emerge che la partita non è affatto conclusa. Infatti, “sulla base dell’aggiornamento al 31 dicembre 2022 risulta che sono state effettuate cessioni per il Superbonus 110% e per gli altri bonus edilizi per 58,4 miliardi di euro dei quali 6,6 sono già stati utilizzati in compensazione”.

Quindi i 110 miliardi hanno finora prodotto “solo” 6,6 miliardi di effettivi oneri per le casse dello Stato e sono stati oggetto di cessione per poco più della metà. Ciò significa che esiste una quota importante di crediti ancora in capo al committente dei lavori o all’impresa che li ha eseguiti, che L’ANCE stima in 15 miliardi. Se i titolati del credito non riusciranno a compensarli con i rispettivi debiti fiscali o a cederli (che è un modo per consentire ad altri soggetti di compensarli) allora l’onere per lo Stato sarà molto inferiore rispetto ai 110 miliardi oggi stimati. E pare questa la strada prima imboccata dal governo Draghi con misure draconiane e sulla quale sta proseguendo il governo Meloni, concedendo qualche maggiore flessibilità, ma non riuscendo a smobilizzare l’ingente monte crediti che si è generato. È questo il vero problema, non lunari e noiose dispute su criteri di classificazione contabile che ieri sono state finalmente ridimensionate.

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