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Polonia, Ungheria e non solo: come va l’economia nell’Europa centro-orientale

Crescono, con cifre da far invidia, i Paesi dell'Europa centro-orientale, ma il boom potrebbe presto finire. L'approfondimento di Pierluigi Mennitti

Le previsioni di crescita dei paesi dell’Europa centro-orientale per quest’anno indicano ancora cifre da far invidia. In particolare la locomotiva polacca, così come la “sovranista” Ungheria, vanno incontro alla fine del 2019 centrando un aumento del Pil del 4,5%, dato che fa invidia ai paesi che hanno già quest’anno avvertito il rallentamento dell’economia globale, Germania su tutti.

Ma anche il boom nel cuore dell’Europa, nei piccoli paesi fuoriusciti trent’anni fa dal comunismo riscoprendo l’antica vocazione industriale, ha i mesi contati. Beata Javorcik, capo economista della Banca per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers, soprannominata la banca dell’est giacché opera nei paesi dell’Europa centrale e orientale e dell’Asia centrale) è stata esplicita in un colloquio con la Neue Zürcher Zeitung, l’autorevole quotidiano svizzero di lingua tedesca: “Con il prossimo anno la festa finisce”.

ESPERTI CONCORDI, IL GRANDE BOOM SI AVVIA AL TERMINE

Quello che nelle statistiche del 2019 non è ancora visibile, lo sarà nel 2020. Per Javorcik sulla regione che va da Varsavia a Budapest, da Bratislava a Praga e Bucarest, si avvertiranno gli stessi problemi legati al commercio internazionale che finora sono stati confinati all’Europa occidentale. E in particolare quelli legati all’industria automobilistica tedesca. Di fatto, lo stesso contraccolpo che interessa quelle imprese italiane che producono per il settore tedesco dell’auto, colpite per il 20% dal rallentamento della produzione in Germania. “Nell’ultimo decennio paesi come l’Ungheria, la Polonia o la Slovacchia hanno fortemente beneficiato dell’integrazione nella filiera automobilistica tedesca che ha prodotto crescita e occupazione”, ha aggiunto la capo economista della Bers, “ma allo stesso modo adesso i problemi che investono il settore si riverbereranno sulle economie di questi stessi paesi”.

L’ESPANSIONE A EST DEL SETTORE AUTOMOBILISTICO TEDESCO

Negli anni passati grandi costruttori come Volkswagen e Daimler sono sbarcati in maniera massiccia nei paesi confinanti dell’Europa centrale, avvantaggiandosi di tre fattori: manodopera altamente qualificata, ambiente favorevole all’impresa grazie anche a una lunga tradizione industriale che ha attraversato sia i decenni a cavallo del diciannovesimo e ventesimo secolo che quelli sotto il comunismo, costo del lavoro contenuto e debole presenza sindacale. E i colossi dell’auto hanno trascinato con sé anche un vasto arcipelago di aziende dell’indotto. Ora l’intero comparto è entrato in una fase complessa: da un lato la grande riconversione verso i motori elettrici, accelerata dallo scandalo del dieselgate che ha colpito in maniera differente le case automobilistiche tedesche e la Volkswagen più di tutti, dall’altro la flessione del commercio internazionale determinata dal crescente protezionismo e dalla guerra dei dazi fra Stati Uniti e Cina. A questo si aggiungono le ombre di una hard Brexit, che danneggerebbe l’economia tedesca (e il suo settore dell’auto) in maniera particolarmente grave.

NESSUN COLLASSO, IL RALLENTAMENTO PRODURRÀ UN ATTERRAGGIO MORBIDO

Tutti questi indicatori hanno concorso a una revisione al ribasso delle previsioni di crescita per il 2020 della Bers per la regione centrale dell’Europa. Si tratta di un rallentamento, non di un crollo, e le cifre dei Pil stimati possono ancora fare invidia alla gran parte dei paesi dell’Ue: tuttavia segnano una prima frenata dopo anni di vacche grasse. Si passa dal +3,5% della Polonia (un punto in meno rispetto al 2019) al +3,1 dell’Ungheria, fino al +2,1% della Slovacchia. Non sorprende che la crescita più bassa sia prevista proprio nel paese in cui vengono prodotte più auto al mondo in proporzione al numero degli abitanti: quasi il 5% del totale dei lavoratori assunti in Slovacchia è impiegato in un’azienda che ha a che fare con il settore automobilistico.
Sono dati che, pur in calo, non appaiono certo drammatici: indicano la fine del boom e l’avvio di una stagione di normalità per paesi che quest’anno celebrano trent’anni di transizione dalle economie di piano a quelle di mercato. Si tratta di “un atterraggio morbido”, come indicato anche dagli economisti viennesi del Wiiw, l’istituto austriaco di comparazione economica (Wiener Institut für Internationale Wirtschaftsvergleiche), le cui stime per il prossimo biennio ricalcano quelle della Bers: fine del boom, riflessi negativi del rallentamento tedesco ma nessun collasso. Finisce la lunga stagione della crescita impetuosa, di fatto ininterrotta dal biennio della crisi finanziaria globale del 2008-2009, ma l’Europa centrale mostra una straordinaria capacità di resilienza che la terrà abbondantemente a galla.

OCCUPAZIONE E SALARI IN CRESCITA SOSTENGONO IL CONSUMO PRIVATO

Merito dell’atterraggio morbido è la robustezza dei fattori interni che sosterranno l’economia dell’Europa centrale anche di fronte alla flessione tedesca. Tra questi, innanzitutto la forte crescita dei consumi privati legata all’aumento dell’occupazione e dei salari medi, questi ultimi destinati a crescere ancora nei prossimi anni. Su di essi incide positivamente un fattore che nel medio-lungo termine potrebbe al contrario rivelarsi letale (e infatti lo ritroveremo tra i fattori di rischio): la carenza di manodopera. L’aumento dei salari è proporzionale alla penuria di lavoratori. Un altro elemento che sostiene la crescita è la generosa politica fiscale e sociale dei governi, in particolare in Polonia e Ungheria, associata a una generale politica monetaria espansiva.

NEL MEDIO-LUNGO PERIODO TRE FATTORI DI RISCHIO

Quel che potrebbe mettere in crisi più seriamente la crescita dell’Europa centrale è la bomba demografica. Lo spopolamento dei primi due decenni dopo la caduta dei regimi comunisti è stato devastante per queste nazioni e le sue conseguenze si fanno sentire maggiormente oggi. È lo stesso fenomeno che si osserva nei Länder orientali della Germania. Nel medio periodo, come detto, la carenza di manodopera diventerà un limite serio alla crescita economica, il forte flusso migratorio dall’Ucraina non è più sufficiente. I governi, pur prudenti nelle politiche migratorie, hanno incentivato negli ultimi mesi flussi da Vietnam, Mongolia, Bangladesh, ma non basterà, così come non hanno finora prodotto i risultati sperati le campagne per far rientrare gli emigrati polacchi che nei decenni scorsi si sono trasferiti in Europa occidentale, Gran Bretagna e Irlanda in particolare. Gli economisti della Bers indicano altri tre fattori di rischio: la progressiva diminuzione degli aiuti strutturali dell’Unione Europea, i costi per la transizione verso un’economia più rispettosa del clima (la Polonia soffre un’eccessiva dipendenza dal carbone per i suoi approvvigionamenti energetici) e le politiche sociali dei governi che, sebbene finora abbiano supportato i consumi, rischiano alla lunga di creare squilibri nei solidi bilanci statali.

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