A Elly la cabala della settimana di 4 giorni era sfuggita. In verità se ne era già parlato nei mesi scorsi. L’argomento però era stato surclassato ben presto da un altro molto più ‘’popolare’’ – il salario minimo legale – di cui si parla ancora in attesa del contributo del Cnel, in arrivo – lo ha annunciato il presidente Renato Brunetta – per metà ottobre.
Elly non era riuscita, in quello scorcio di tempo, a dire la sua a proposito della settimana ‘’ultra corta’’ e ha cercato di recuperare in queste ore con una dichiarazione che è anche un programma: ‘’È una misura che porta con sé alcuni benefici importanti: non soltanto il prezioso tempo delle persone, da dedicare ai propri interessi e ai propri affetti. Migliora anche dal punto di vista della riduzione delle emissioni climalteranti, perché diminuisce gli spostamenti. E poi aiuta anche nel riequilibrio di genere nel mondo del lavoro. Insomma, abbiamo diverse ragioni per provare a sperimentare questa misura».
Il fatto che la segretaria del Pd usi la parola ‘’sperimentare’’ è meritevole di una segnalazione perché Elly è una donna di grandi certezze, sempre pronta a lanciarsi nelle avventure della sinistra da Boheme: una sorta di ‘’usato sicuro’’, come lo slogan ‘’lavorare meno, lavorare tutti’’ che ha forgiato intere generazioni di sindacalisti.
Ben presto chi aveva lanciato l’idea, nei mesi scorsi, aveva inserito il freno a mano quando si era accorto che, laddove era stata istituita la settimana lavorativa di 4 giorni, in realtà non vi era stata una riduzione d’orario a parità di salario, ma soltanto una redistribuzione del calendario settimanale su di un numero minore di giornate, con l’obiettivo molto ‘’progressista’’ di prolungare il week end e quindi scaricando sulle autostrade quelle ‘’emissioni climalteranti’’ che negli altri giorni si accaniscono sulle città.
Poi, è vero che la pandemia ha introdotto un diverso rapporto fisico con il posto di lavoro soprattutto nel caso di particolari mansioni che, grazie alle nuove tecnologie, possono essere svolte anche da remoto, sia pure aprendo nuovi problemi. Sono comunque premature le valutazioni degli esiti delle sperimentazioni compiute. Per ora si resta nell’ambito del ‘’sentito dire’’.
In vari Paesi come l’Islanda, il Giappone, la Nuova Zelanda e la Spagna sono stati lanciati dei progetti sperimentali delle risorse umane per testare la settimana lavorativa di 4 giorni, alcuni dei quali hanno fornito risultati estremamente promettenti. Nel Regno Unito, poi, una sessantina di aziende ha sperimentato il lavoro dal lunedì al giovedì: la maggior parte ha deciso di proseguire. Anche da noi vi sono state prime esperienze, a livello di nicchia: Intesa San Paolo e Lavazza.
Ma a sentire Eurostat le tendenze prevalenti da noi vanno in altre direzioni. In Italia ci sono 2,7 milioni di persone che lavorano oltre 9 ore al giorno; secondo la ricerca di Eurostat il 9,4% dei lavoratori resta sul posto 50 ore a settimana, il 25% in più delle canoniche 40 previste dalla legge come limite massimo. La quota di straordinari è fra le più elevate in Europa. Non è certamente un contesto di cui andare fieri, se penso che mia nonna – bracciante agricola – a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo intonava una significativa canzone popolare: ‘’Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar’’.
Per i sindacati la settimana di quattro giorni è diventata una ‘’tentazione audace’’; le imprese non la escludono a priori. «Siamo dispostissimi a sederci e a ragionare, ma non in maniera ideologica, o vanno in crisi l’occupabilità e l’occupazione in Italia», ha preconizzato il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Ma prima di mettersi a correre occorrerà imparare a camminare.
Certo che il tema dell’orario di lavoro – fiorente nel secolo scorso – è sparito da decenni dal dibattito. Eppure è una componente essenziale dell’organizzazione del lavoro anche in vista di una maggiore produttività e, soprattutto, dell’introduzione delle nuove tecnologie, presentate come l’ammazzasette dell’occupazione. Sono riflessioni da compiere, magari con meno romanticismo di quello profuso da Elly Schlein.
Ma gli scenari devono tener conto di un altro aspetto: la variante demografica che, sia pure in una logica perversa, potrebbe determinare una situazione paradossale che ingigantisca con un pantografo immaginario la crisi che già viviamo oggi. Non si investe in nuove tecnologie perché non sono reperibili – non solo sul piano della qualità professionale – i lavoratori a cui affidarne l’utilizzo.