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Decreto Rilancio, il caos al Mef e le figure barbine del governo

Che cosa è successo alla Camera sul decreto Rilancio? L'approfondimento di Daniele Capezzone

Nell’Aula della Camera il testo del Decreto Rilancio è arrivato, dopo lunga e penosa malattia, solo alle 18.30 di ieri sera. Prima, è stato necessario un ennesimo ritorno in Commissione Bilancio per correggere i pasticci combinati da governo e maggioranza e puntualmente evidenziati dalla Ragioneria Generale dello Stato, che – giova ricordarlo – non è un organo esterno, ma è parte integrante del Ministero dell’Economia.

Va dato atto a Claudio Borghi, leghista e presidente della Commissione, di aver tenuto un comportamento ineccepibile dal punto di vista istituzionale, rimanendo sempre capace di separare il suo punto di vista politico (ferocemente contrario al provvedimento) dalla materiale gestione dei lavori, che è stata impeccabile da parte sua.

Tutt’altro che impeccabile, invece, anzi si potrebbe dire disastroso, il comportamento del governo. E non solo per i 256 articoli di un provvedimento omnibus (nato, non dimentichiamolo, come “Decreto Aprile”, e siamo all’8 luglio…), ma per il tentativo di infilarci di tutto, dai soldi alla fondazione di Bill Gates fino ai voli in business class per l’expo di Dubai.

Morale, la trattazione è diventata una via di mezzo tra un pandemonio e un suk: 8mila emendamenti, poi ridotti a 1200, e la Commissione che – miracolosamente – è riuscita lo stesso a chiudere i lavori. Ma con un gigantesco “ma”: con un cortocircuito paradossale, proprio su emendamenti del governo o della maggioranza, e su cui i rappresentanti del governo avevano espresso parere favorevole, è arrivata la mannaia della Ragioneria Generale dello Stato, che ha steso una devastante nota tecnica di 22 pagine per stroncarli e chiederne la correzione, che poi è avvenuta nella giornata di ieri. Ora, se un rappresentante del governo dà parere favorevole in Commissione prima della votazione di un emendamento (ed è il segnale che l’esecutivo autorizza la sua maggioranza a votare sì), si presuppone che si sia già consultato con la Rgs. E invece più di qualcosa non ha funzionato. In un altro articolo, spieghiamo tutto ciò che non va nella macchina del Mef, dalle carenze della “testa” politica alle stanchezze del “corpaccione” tecnico.

Ma una fonte anonima del Ministero, e però solitamente attendibilissima, pur senza negare e anzi ammettendo i problemi di carattere generale, ha aggiunto una causa più specifica dell’incidente. L’innesco, secondo questa interpretazione, sarebbe stato determinato dal tentativo della maggioranza Pd-M5S (con il governo o corresponsabile o incapace di gestire la situazione) di infilare nottetempo un’ultima ondata di emendamenti non concordati né coperti. Per dirla con le parole di Giuseppe Conte: qualcuno ha provato ad agire “con il favore delle tenebre”, insomma. E in questa infornata, secondo questa interpretazione, il Pd avrebbe provato a spingere anche temi e punti sollecitati da qualche esponente di Fi, in un tentativo del Pd di captatio benevolentiae verso un pezzo dell’opposizione. Ovviamente, da parte del Pd, si nega questa ricostruzione.

In ogni caso, alle 17.15 di ieri, dopo un’altra giornata caotica, Borghi si è correttamente presentato in Aula chiedendo un’altra ora e un quarto (fino alle 18.30) solo per assemblare materialmente i testi modificati che nel frattempo erano stati approvati. Nella pausa, il leghista si è tolto lo sfizio di scrivere su Twitter che “la gloriosa Commissione Bilancio ha sistemato le ‘lievi imprecisioni’”. Un modo da un lato per rivendicare la correttezza del suo operato istituzionale e dall’altro per sottolineare la débacle tecnica e politica del governo.

Finalmente, alle 18.30, la seduta è ripresa, e, com’era scontato, si è presentato in Aula il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà per porre la fiducia, con ciò blindando il resto del percorso, facendo decadere ogni emendamento in Aula, e precostituendo l’approvazione del testo uscito dalla Commissione (nell’ultima versione). Testo che a questo punto, mancando poco alla scadenza dei 60 giorni, il Senato potrà a sua volta solo guardare e approvare, senza nemmeno cambiare una virgola. Non ci sarebbe infatti spazio per una terza lettura, con tanti saluti alla mitica “centralità del Parlamento”, ridotta a scioglilingua vanamente ripetuto da Pd e M5S.

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