Dopo mesi di rivoluzioni promesse e annunciate, il primo atto normativo di un certo impegno varato dal governo Lega-M5s, il cosiddetto decreto dignità, dimostra che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, anzi l’oceano.
Il contratto del cambiamento aveva promesso una vera e propria rivoluzione fiscale, l’abolizione del Jobs act, il reddito di cittadinanza, l’abolizione della legge Fornero. Tutto rinviato a tempi migliori. Anche le poche misure approvate sono un pallido riflesso delle orgogliose promesse fatte fino al giorno prima.
Nel contratto si prometteva «l’abolizione dello spesometro e del redditometro, strumenti anacronistici e vessatori di rilevazione del reddito» (pag. 21 del contratto), invece i due strumenti, peraltro già depotenziati dai governi precedenti e destinati comunque a essere superati con la fatturazione elettronica, restano in vigore.
Resta in vigore anche lo split payment, abolito solo per i professionisti (che sono già soggetti a una ritenuta d’acconto e nei confronti dei quali, quindi, lo strumento non aveva finalità di contrasto all’evasione).
Per un governo che si autodefinisce del cambiamento, sembra un po’ poco. È evidente che le esigenze di cassa, fatte valere dal ministro dell’economia Giovanni Tria, hanno impedito di andare oltre.
In materia di lavoro, poi, il risultato è ancora più deludente: l’obiettivo di ridare dignità al lavoratore si è trasformato in una svolta autoritaria e burocratizzante. Invece della promessa «riduzione strutturale del cuneo fiscale e semplificazione, razionalizzazione e riduzione degli adempimenti burocratici connessi alla gestione amministrativa dei rapporti di lavoro» (pag. 29) abbiamo un ritorno al passato e un aumento della complessità.
Ancora una volta vince l’illusione che il lavoro si possa creare per decreto. Con nuove norme, nuove sanzioni, nuovi obblighi. Se questo è l’inizio.
(Estratto di un articolo pubblicato su ItaliaOggi)