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Credit Suisse

Vi racconto i tormenti in Svizzera sul Credit Suisse

Il destino di Credit Suisse sarà la “separazione” o la “concentrazione”? L'articolo di Teo Dalaveracuras.

Herr Albrecht in lederhosen con le immancabili bretelle a fiori, seduto con due compagni di sventura davanti a una montagna di Gipfeli, croissant un po’ particolari offerti a mo’ di risarcimento ai mille e settecento e passa piccoli azionisi che non hanno voluto perdersi l’ultima assemblea del Credit Suisse, dichiara di voler mantenere le distanze dagli “imbroglioni” che hanno annientato il suo investimento. Allo stesso tavolo un altro piccolo azionista dice che del Credit Suisse non gli sarebbe mai passato per la testa di comprare azioni, se non fosse stato per un impiegato della banca lo aveva spinto, dicendosi convinto che il titolo avrebbe “rivisto gli 80” (franchi svizzeri, ndr). “Aveva ragione”, commenta l’azionista malgré-soi, “oggi vale qualcosina più di 80 (centesimi di franco svizzero)”. Galgenhumour lo chiamano i tedeschi, spirito da forca. Per l’ultima assemblea del CS anche il cronista della Neue Zürcher Zeitung punta sulla nota di colore e lo stesso titolo (“Così si seppellisce una grande banca”) è sbarazzino.

Nel frattempo, si accumulano argomenti per la sessione straordinaria delle due Camere dell’Assemblea federale che si aprirà martedì 11 aprile, all’indomani della Pasqua cattolica. Il primo si era annunciato subito dopo la conferenza stampa di domenica 19 marzo, ormai una data storica, ed è quello dei 16 miliardi di “co-co bonds” del CS azzerati nel contesto dell’operazione di “salvataggio”: un problema che di sicuro continuerà a far discutere, per la banale ragione che questi titoli solitamente non sono detenuti dal “parco buoi” dei risparmiatori che si consolano con lo spirito da forca, ma da investitori professionali che appartengono piuttosto a un’altra specie animale, quella degli squali, dove non è costume rassegnarsi a una perdita prima di averla osteggiata con tutti i mezzi in tutte le sedi giudiziarie e extragiudiziarie.

E non è escluso che la notizia, anticipata dal solito Financial Times di domenica 2 aprile, dell’apertura di un fascicolo da parte del Procuratore generale della Confederazione relativo a potenziali violazioni del diritto penale svizzero da parte di funzionari governativi, autorità di regolamentazione e dirigenti di Ubs e CS, abbia qualche indiretta relazione con i co-co Bonds, benché al momento si preferisca parlare delle normative sullo spionaggio industriale e il segreto di stato. È innegabile infatti che il Ft, ammirevole testata sotto ogni punto di vista, che già venerdì 17 marzo aveva preannunciato quella che sarebbe stata la soluzione del “caso Credit Suisse”, svolga anche la funzione di una sorta di Gazzetta Ufficiale del potere finanziario globale.

Sull’argomento si registra poi una netta presa di posizione del ticinese Paolo Bernasconi.  Grande avvocato,  docente di diritto dell’economia e figura pubblica assai nota e stimata anche in Italia, prima della professione forense che esercita da poco meno di quarant’anni per oltre quindici Bernasconi aveva ricoperto l’ufficio di Procuratore pubblico. In una conversazione con il Corriere del Ticino nella quale analizza e commenta vari aspetti del salvataggio del Credit Suisse, fa una considerazione generale molto esplicita: “siamo di fronte a una catastrofe di portata storica per il nostro Paese e per migliaia di cittadini e quindi è legittimo chiedersi se l’autorità penale non debba intervenire d’ufficio e se non avrebbe dovuto farlo mesi orsono”. Difficile non cogliere la critica ai suoi ex colleghi, sia a Berna che nei cantoni.

Su un altro fronte, quello dei bonus milionari ai devastatori della fu seconda banca svizzera, un provvedimento del governo federale ha imposto al Credit Suisse tagli “ben temperati” alle remunerazioni dei dirigenti di vertice, che dovrebbe riguardare un migliaio di persone. Provvedimento soggetto a impugnazioni amministrative e in ogni caso a valutazione politica.

Sull’intera operazione incombe, soprattutto, la richiesta, che circola sin dai primi giorni nell’ambiente politico, di mantenere l’azienda svizzera del CS come un’azienda separata. Se le parole hanno un senso, questa “separazione” suona difficilmente conciliabile quell’altra parola che definisce l’intero intervento: “concentrazione”. Anche Sergio Ermotti, appena rispedito al timone dell’Ubs (che aveva già tenuto, con mano ferma e risultati complessivamente positivi, per una decina d’anni fino al 2020) ha subito voluto evocare la concentrazione. A proposito di Ermotti, data l’autorevolezza, il temperamento poco arrendevole del personaggio e la sua intima conoscenza anche del mondo politico elvetico, la designazione è stata interpretata come un messaggio di fermezza dell’establishment finanziario alla politica, proprio rispetto alle perplessità subito emerse sulla struttura complessiva dell’intervento.

Questa volta però è augurabile che anche Ermotti riesca a trovare, in qualche piega della sua personalità, una vocazione al servizio pubblico che gli consenta di avvertire il rischio esistenziale che a causa di questa sciagurata e sciaguratamente trascinata per troppi anni storia del CS, corre la stessa Svizzera e quindi di deflettere, quando sarà necessario, da quello che potrebbe legittimamente  considerare il proprio rigore professionale. Per dirla con le parole dell’uomo in lederhosen che abbiamo incontrato all’inizio: “Adesso abbiamo una banca-Moloch, quando salta questa arrivederci Svizzera”  (in italiano nel testo le parole in corsivo).

Se si può ricavare un’impressione complessiva da queste due settimane dove un enorme numero di opinioni e analisi, mediamente motivate e esenti da esagerati toni retorici, si sono riversate su tutte le testate svizzere, questa è che nel vissuto dei cittadini e degli stessi banchieri l’industria bancaria è meno importante, per l’economia e per la società svizzera, di quanto l’opinione pubblica internazionale tenda a credere. Oppure, detto diversamente: la sopravvivenza della delicata miscela – garantita da una sovranità a lungo gelosamente custodita – di coesione e autonomia, industria manifatturiera, servizi e ricerca, dell’equilibrio istituzionale fondato su federalismo e democrazia diretta, di una cultura politica che rifiuta il conflitto sistematico come metodo di governo, è più importante della difesa a oltranza dell’industria bancaria. Nessuno lo dice in modo così brutale come l’ho appena scritto, ma solo su questo presupposto la discussione collettiva che si è dipanata in queste due settimane acquista un senso compiuto.

Christoph Blocher, storico leader dell’Unione di Centro, partito portabandiera del “modello svizzero”, che in queste settimane si è espresso senza sosta contro la nascita della “banca Moloch”, già diversi anni fa aveva manifestato, inascoltato, riserve e preoccupazioni sulla presenza di banche molto grandi in Svizzera, opinione alla quale Ermotti ha sempre replicato che per competere sui mercati internazionali bisogna essere molto grandi. Due logiche apparentemente inconciliabili, anche se la storia del Credit Suisse insegna che la grande dimensione sarà anche una condizione necessaria per competere nell’arena internazionale, ma non è una condizione sufficiente.

In ogni caso, il menu della prossima sessione straordinaria del Parlamento di Berna si annuncia ricco e vario e, per una volta, anche la politica interna svizzera merita di essere seguita da vicino. Per capire, magari, se quella Svizzera che per tanto tempo è stata un invidiato unicum ha ancora un futuro o se per caso la sovranità della Confoederatio Helvetica non sia già svanita, nella generale inconsapevolezza, ancor prima delle esequie della sua seconda banca. Vittima, anche la Confederazione, della geopolitica declinata, in questo caso, in chiave bancaria.

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