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Folli Follie

Cosa c’è da imparare dal caso (poco noto) di Folli Follie

Il corsivo di Teodoro Dalavecuras

Il primo maggio 2018 la Quintessential Capital Management LLC di New York (QCM), società di gestione di fondi “attivista” diretta dall’italiano Gabriele Grego, già volontario paracadutista delle forze armate israeliane, pubblica un rapporto su una delle più grandi società quotate della Borsa di Atene, la FF Group, meglio nota come Folli Follie, un marchio del lusso costruito intorno a gioielli e orologi trendy a prezzi appetibili, che nel giro di relativamente pochi anni aveva acquistato proiezione e notorietà globale affermandosi anche nei mercati asiatici, in particolare in Cina.

Fondata nel 1982 da Dimitri Koutsolioutsos insieme alla moglie, quotata nel 1997, dieci anni dopo registrava un giro d’affari di oltre 700 milioni di euro, e di 1,419 miliardi alla fine del decennio successivo. La capitalizzazione di borsa è di oltre 1,2 miliardi.

Una straordinaria success story, soprattutto in un paese, la Grecia, che negli ultimi otto anni aveva attraversato una crisi economica di dimensioni bibliche, con un tasso di disoccupazione salito al 25% e il dissesto di gran parte del sistema bancario.

Quanto a Grego, il rapporto della sua società si presenta con un titolo inequivocabile: “La Parmalat greca?”, dove il punto interrogativo ha il solo scopo di creare un minimo di suspence: dopo trenta pagine si conclude infatti in modo lapidario, nel senso letterale del termine, cioè con una specie di lapide: “Siamo convinti che gli elementi prodotti giustifichino serie preoccupazioni sullo stato di salute e sulle prospettive di FF Group. Le nostre verifiche sulla dimensione effettiva della rete, presenza digitale, distributori, altri cointeressati e revisori contabili convergono sulla medesima conclusione: gli affari in Asia potrebbero consistere in una frazione di ciò che appare. Le implicazioni per la quotazione sono chiare: secondo noi potrebbe essere sopravvalutata in misura significativa”.

Conclusione perfino misurata, verrebbe da dire, se si considera quel che il rapporto racconta (ma è solo un esempio), a proposito della Chung & Partners, i revisori locali della “FF Group Sourcing Limited” (sub-holding cinese di FF Group con un fatturato di circa 1 miliardo di dollari): “abbiamo fatto visita alla sede di Chung & Partners a Hong Kong e abbiamo trovato un piccolo ufficio con due persone”. Ancora più eloquente il modo come FF Group aveva giustificato il ricorso a questa mini società di revisione in una conference call del 2015: “Siamo soddisfatti dei nostri revisori di Hong Kong perché fanno un lavoro che è molto più di quello che fanno le Big Fours e sono molto meno costosi, controllano anche le rimanenze di magazzino, i conti di tutti i punti di vendita, delle fabbriche e dei centri logistici. Insomma, siamo molto soddisfatti”. Il rapporto di QCM commenta: “Non si riesce a capire come una squadra di due persone a Hong Kong possa verificare gli stock e i conti di tutti i punti di vendita di una  società che opera in svariati paesi dell’Asia con centinaia di negozi”. Ma questi sono dettagli, quasi note di colore, il succo del rapporto si condensa in un numero: il fatturato della branch asiatica, che nei conti consolidati di FF Group pubblicati meno di una settimana prima, il 26 aprile, contribuisce con oltre 1 miliardo ai ricavi consolidati, secondo le stime del rapporto “vale” circa 50 milioni.

Nelle borse dove sono negoziate le obbligazioni di FF Group, 450 milioni di euro in scadenza tra il 2019 e il 2021, all’arrivo del rapporto di QCM gli scambi si bloccano. Nei giorni successivi si riescono ancora a vendere le obbligazioni, ma con uno sconto del 40% sul nominale. Le banche internazionali che avevano collocato il debito di FF Group nei portafogli dei clienti, li contattano freneticamente per informarli della situazione e chiedere istruzioni.

Ad Atene, intanto, le autorità della Borsa e la “Commissione per il Mercato dei Capitali”, la Consob greca, reagiscono con flemma britannica, come si sarebbe detto prima dell’arrivo di Boris Johnson a Downing Street. La Commissione, il 7 maggio, invita la FF Group a sottoporre i conti consolidati ad audit da parte di una società di revisione internazionale. Quanto alla Borsa, il 25 maggio si decide a sospendere la quotazione dei titoli FF Group fino al completamento dell’audit da parte della Ernst & Young (“EY”), ma solo perché lo chiede, attraverso la Commissione, la stessa società emittente con un infastidito comunicato, motivando la richiesta con la “continua e coordinata diffusione in informazioni fuorvianti, che hanno ingiustificatamente creato un clima intensamente negativo”. Ma l’attesa è destinata a durare: il 15 giugno, dopo quasi 40 giorni dall’ “invito” della Commissione per il Mercato dei Capitali, l’audit è sempre in alto mare: la FF Group comunica attraverso la sua pagina web che la EY, “per sue ragioni” non è più disponibile a eseguire l’incarico ma solo un incarico parziale conferitole precedentemente; il 19 settembre EY annuncia la rottura dei rapporti con FF Group per “mancanza di collaborazione” della società mandante.

Quanto ai revisori legali dei conti della FF Group, il 18 luglio, si scuotono dal torpore apparente e “ritirano” la relazione sul consolidato pubblicato il 26 aprile. Nel frattempo l’incarico di revisione del consolidato 2017 era stato affidato alla Alvarez & Marsal (con la quale invece, come sarebbe emerso più tardi, la FF Group “collaborava” fin troppo). La relazione di Alvarez & Marsal, rassegnata il 26 settembre, si può compendiare in pochi ma eloquenti numeri (in milioni di dollari): rimanenze 33,9 contro i 581,7 indicato nel consolidato pubblicato esattamente 5 mesi prima; crediti commerciali 99 contro 719; disponibilità bancarie 6,4 contro 296,8; ricavi 116,8 contro 1.112,3; patrimonio negativo per 2.012,5 milioni contro mezzi propri di 1.8131,9 milioni risultanti dal consolidato pubblicato. Insomma non un buco ma una voragine incommensurabile.

A questo punto però anche il lettore più paziente si chiederà legittimamente perché gli si racconti questa storia vecchia di due anni.

Le ragioni sono due. La prima è che questa vicenda ha incontrato sin dall’inizio un singolare disinteresse da parte dei media internazionali ed è stata completamente ignorata da quelli italiani. La seconda è una (corposa: 220 pagine) relazione interinale della società di revisione internazionale Pricewaterhousecoopers (PwC) consegnata a fine novembre 2020 all’autorità giudiziaria di Atene e divenuta di dominio pubblico nelle settimane successive.

Bisogna riconoscere, innanzitutto, che la QCM è stata ingenerosa nei confronti della nostra Parmalat intitolando il suo rapporto del primo maggio 2018 “La Parmalat greca?”. Con tutte le sue magagne, Parmalat era un società troppo indebitata, disinvoltamente gestita e caratterizzata da un impiego esageratamente creativo dello scanner, ma con un tangibile contenuto commerciale e industriale, tanto che la francese Lactalis per conquistarla ha dovuto mettere sul tavolo svariati miliardi di euro. Calisto Tanzi ha pagato il fio della mala gestione sia sul piano personale che su quello patrimoniale e, poche settimane dopo l’esplosione dello scandalo, ha dovuto lasciare le leve di comando del suo gruppo. Niente di paragonabile alla surreale parabola di Folli Follie.

La storia della Folli Follie, per come comincia a emergere dalla relazione interinale di PwC, è un rosario di orrori contabili e imprenditoriali. È un catalogo molto istruttivo di quel che si poteva fare – sicuramente fino al 2018, per il futuro si vedrà –  con una società quotata in borsa in un Paese dell’Euro, sottoposto a una miriade di direttive Eu e di procedure intese a garantire trasparenza e corretta gestione.

Non solo la FF Group è stata utilizzata, secondo quanto emerge dal rapporto PwC, come il borsellino della famiglia del fondatore (ancora a fine aprile 2018 dalle casse sociali furono prelevati 550 mila euro in contanti “per finalità aziendali di carattere confidenziale”, e tra il 4 e il 17 maggio 2,7 milioni di euro vengono trasferiti sui conti personali di Dimitri Koutsolioutsos e di suo nipote, in totale la metà delle disponibilità bancarie del gruppo risultanti dal rapporto Alvarez & Marsal). Non solo già nel 2008 le vendite fittizie (realizzate col metodo, non proprio originale, del “carosello”, “girotondo” o “merry go round” che dir si voglia: in pratica vendite a entità occultamente e in qualche caso neppure occultamente controllate) del gruppo ammontavano al 17% del totale, percentuale arrivata al 62% nel 2017, ultimo anno prima della “perdita dell’innocenza” (mi si perdoni l’eufemismo). Non solo queste vendite fittizie, questi ricavi immaginari, avevano prodotto imposte tutt’altro che immaginarie a carico degli azionisti di FF Group, pagate a Hong Kong nell’ordine di centinaia di milioni di dollari sonanti. Non solo – anche questo emerge dal rapporto PwC – fino alla fine del 2019 Giorgi Koutsolioutsos ha continuato a dare disposizioni al management di PwC benché lo stato di virtuale fallimento del gruppo fosse conclamato quanto meno dal 26 settembre 2018, grazie ai numeri resi noti da Alvarez & Marsal, società “indipendente” scelta in realtà dalla famiglia Koutsolioutsos, come PwC documenta nel rapporto. Non solo nei conti pubblicati da FF Group alcune delle 45 controllate figuravano come residenti nel Regno Unito, mentre erano società costituite nel noto paradiso fiscal-societario delle Isole Vergini Britanniche. Tutto alla luce del sole ma nessuno se n’era accorto finché Grego non ha tirato il segnale d’allarme (e molti, almeno in Grecia, nemmeno dopo). Ciliegina sulla torta: dal rapporto di PwC emerge anche che esponenti di molte delle entità coinvolte nel girotondo delle compravendite fasulle erano spesso e volentieri i due partner della Chung & Partners, la società di revisione della sub-holding asiatica, della quale – non ha torto dal suo punto di vista – Giorgi Koutsolioutsos si era dichiarato “molto soddisfatto” nella conference call di cui si è già riferito più sopra.

PwC non ha potuto concludere il suo lavoro perché la società mandante non ha pagato una parte dei compensi dovuti (a parte questo “dettaglio” contabile, il rapporto si diffonde sulle difficoltà opposte dal management dell’azienda che in buona sostanza ha ostacolato in ogni modo le indagini del revisore: di 23 esponenti aziendali che PwC aveva chiesto di intervistare solo 7 si sono resi disponibili, alcuni, anche ex amministratori, sono risultati “irreperibili” per la FF Group).

Insomma, materia per una case history non solo da business school; anche una buona occasione per riflettere a fondo sulla alluvionale produzione di regulation che ha sì gonfiato, in questi decenni, i bilanci delle grandi società di revisione e i budget della compliance delle società quotate, ma non sembra in grado di portare alla luce – nemmeno in un Paese della zona euro assoggettato per anni alla severa vigilanza della Troika – frodi societarie sfacciate, di quelle che un semplice diligente giornalista economico-finanziario dovrebbe essere in grado di scoperchiare (il fatto che il presidente del comitato di controllo di una società che capitalizzava ben oltre 1 miliardo di euro nella piccola borsa di Atene fosse un dentista, suocero dell’amministratore delegato Giorgi Koutsolioutsos avrebbe dovuto suscitare qualche domanda), ma deve affidare una relativa pulizia del mercato ai fondi attivisti di scuola americana i cui profitti, per quanto cospicui, restano una piccola frazione del surplus di costi generati dalla proliferazione delle procedure imposte agli operatori; ma non è questa la sede per approfondire un tema di così grande momento.

Resterebbe la curiosità di capire i motivi della lentissima reazione delle autorità elleniche all’esplosione del crac (QCM, nel suo rapporto del primo maggio 2018 aveva già documentato come la metà dei punti vendita in Asia dichiarati da Folli Follie non dessero alcun segno di vita e come si dovesse considerare fittizia la quasi totalità del fatturato dichiarato della sub-holding asiatica, dato divenuto  ufficiale quanto meno dal 26 settembre; la perizia giudiziaria disposta dal Tribunale monocratico di Atene venne affidata a PwC il 21 novembre 2018 ma il relativo provvedimento fu notificato alla stessa PwC due mesi dopo; il contratto con la FF Group, cui ovviamente faceva carico l’onere della perizia, venne concluso il 25 giugno 2019; l’11 dicembre 2019 – e siamo arrivati a oltre 19 mesi dalla prima emersione del crac – la Commissione per il Mercato dei Capitali deliberava di chiedere a PwC di comunicare eventuali elementi emersi dalla sua indagine a carico di membri del consiglio d’amministrazione).

A questa domanda il rapporto interinale dei revisori/periti offre qualche elemento di risposta: in buona sostanza riferisce, sulla base di scambi di e-mail interne tra Giorgi Koutsolioutsos e il responsabile della “sicurezza” di FF Group degli inizi di maggio del 2018 e altri documenti, che subito dopo l’uscita del rapporto QCM la preoccupazione dei Koutsolioutsos riguarda la tenuta delle coperture politiche, e a questo proposito l’uomo della sicurezza rassicura l’amministratore delegato: la “copertura” politica del gruppo resta solida. Riferisce che “Maximou” (il “Chigi” di Atene) è informato; che la Commissione eviterà mosse non desiderabili o premature; che si dovrà tenere conto di talune “esigenze”. Circola il nome di Alekos Flambouraris, anziano politico della sinistra radicale, ministro e soprattutto mentore politico di Alexis Tsipras.

A Atene si comincia a parlare da una parte di Tribunale dei ministri e dall’altra di “speculazioni” del governo per distogliere l’attenzione dalla cattiva gestione della pandemia (a onor del vero in Europa si è visto molto di peggio). Per quanto mi riguarda, sono troppo vecchio per aspettarmi che a livello di “giustizia ministeriale” venga fuori qualcosa di tangibile. Non bisogna dimenticare che la fortunata ricetta politica di Tsipras ha comportato non solo un’alleanza con l’opposizione interna di Nea Demokratia, quella che fa capo a Kostas Karamanlis, ma anche una copertura in termini coalizione parlamentare sul lato della destra estrema di Panos Kamenos, ministro della Difesa del governo Syriza-Anel.

Si vedrà.

In ogni caso restano agli atti il silenzio e l’apparente disinteresse del governo Syriza-Anel e degli organi d’informazione a questo legati per la vicenda; i movimenti al rallentatore delle “autorità preposte” — dalla Commissione per il Mercato dei Capitali al messo notificatore del tribunale. E rimane agli atti anche la decisione della Titan, principale gruppo ellenico operante nel settore del cemento con una capacità produttiva di 27 milioni di tonnellate e stabilimenti produttivi in 10 paesi (dagli Stati Uniti alla Turchia) di scegliere quale principale mercato di negoziazione delle proprie azioni, dal 23 luglio 2019, Euronext Bruxelles, con quotazione parallela a Euronext Parigi e ad Atene, dov’era quotata dal 1912 e dove oggi la sua presenza a listino è simbolica.

Beh, che un paese come l’Italia, che con Barbara Spinelli ha intestato una lista elettorale paneuropea a Alexis Tsipras nel 2014, e con Luciana Castellina, candidata di Syriza nella circoscrizione del Pireo, ha anche partecipato nel 2019 alle elezioni politiche elleniche, ignori tutto della epopea di Folli Follie non è bello. Nel mio piccolo, mi è sembrato giusto rimediare a questa lacuna.

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