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Merkel Von Der Leyen Recovery Fund

Conviene davvero il Recovery Fund all’Italia?

Il Recovery Fund analizzato da Giuseppe Liturri

 

Dobbiamo confessare una difficoltà, abbiamo scritto (quasi) tutto sul Recovery Fund già la mattina del 28 maggio, quando tutti i giornali inneggiavano alla svolta epocale, salvo poi fare una brusca retromarcia il giorno dopo e scrivere esattamente quanto noi avevamo detto 24 ore prima. Nei giorni successivi è stato un diluvio di distinguo: dal governatore Vincenzo Visco, al ministro Enzo Amendola, al professor Roberto Perotti. Tutti intenti ad avvertire che nessuno ci regalava nulla, anzi.

Ora è quindi il momento di far proseguire il dibattito, prestando la massima attenzione allo studio delle centinaia di pagine pubblicate dalla Commissione fino a venerdì. E la conclusione è molto breve: la lettura dei dettagli ci porta a concludere che la Commissione intende sfruttare questa occasione per plasmare definitivamente il nostro Paese secondo le raccomandazioni che restano da anni inascoltate. Riforme ed investimenti come “conditio sine qua non” per ricevere gli aiuti. Ma quali riforme ed investimenti? Quelle decise a Bruxelles e scritte da anni nelle raccomandazioni all’interno del ciclo di coordinamento delle politiche economiche che va sotto il nome di Semestre Europeo.

I documenti che illustrano nei dettagli i diversi pilastri su cui si basa il piano da 750 miliardi, aggiuntivi rispetto ai 1.100 del bilancio tuttora in discussione per il settennio 2021-2027, spiegano tutto chiaramente. Al punto che sarebbe stato più opportuno titolare il documento: “Italia, vuoi aiuto finanziario? Allora devi fare fino al 2058 quello che ti diciamo noi”.

Procediamo per punti:

  1. Cominciamo dai numeri. Accertato che i 750 miliardi aggiuntivi si dividono in 500 di sussidi e 250 di prestiti, a loro volta i 500 sono frazionati su diversi strumenti, il principale è lo strumento per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility, Rrf). Questo strumento consentirà di erogare sussidi per 310 miliardi (335 a prezzi correnti) e prestiti per 250 miliardi (268 a prezzi correnti). Il complemento a 500 miliardi finirà in altri strumenti di minore entità e, soprattutto, per 67 miliardi serviranno come garanzia alla BEI per emettere le obbligazioni i cui proventi consentiranno l’erogazione di prestiti alle imprese. In sostanza, i 500 miliardi si riducono, a prezzi correnti, a 335 miliardi. Di questa somma l’Italia può beneficiare fino ad un massimo di 68 miliardi, seguita subito dopo dalla Spagna con 67 miliardi. La base di ripartizione della nostra quota è quindi del 20,4%. Questo non significa che gli 82 miliardi si sono ridotti a 68, ma solo che la base di ripartizione degli altri strumenti non sarà la stessa dello strumento principale e che le altre somme sono ancora meno gestibili dall’Italia. Inoltre la Commissione prevede di concentrare la disponibilità delle somme nei primi quattro anni del prossimo settennio, quindi con scadenza 31 dicembre 2024, con impegno a concentrare nei primi due anni almeno il 60% della spesa. E qui finiscono le buone notizie, se tali si possono definire.
  2. Ammesso e non concesso che questa ripartizione numerica regga all’esame del Consiglio Europeo del prossimo 19 giugno, la parte complicata – ma d’altra parte inevitabile, se solo ha una minima conoscenza di come funzionano i finanziamenti comunitari – comincia quando si esamina la procedura da seguire per ricevere quei fondi. Il sentiero è strettissimo ed accidentato. Esso prevede il sostegno finanziario esclusivamente al fine di implementare riforme ed eseguire investimenti. Quali? Solo ciò che aiuta ad affrontare le criticità identificate nel ciclo di coordinamento delle politiche economiche del Semestre Europeo ed è finalizzato alla transizione “green” e digitale. Il capitolo 5 del documento di 47 pagine più allegati che contiene la proposta di Regolamento del Rrf è una vera e propria corsa ad ostacoli ed il perno di tutto è il Piano Nazionale delle Riforme, di cui il piano per il Rrf costituirà un allegato da presentare entro il 30 aprile. Tale piano dovrà definire le riforme e gli investimenti ritenuti idonei a conseguire gli obiettivi di politica economica propri del Semestre europeo. Un percorso blindato al cui centro c’è la transizione verso il digitale ed il “green”. Deve essere tutto dettagliato: obiettivi intermedi, costi, piano delle attività. Il tutto sarà sottoposto alla attenta valutazione della Commissione che ne esaminerà la coerenza con gli obiettivi già definiti ed apporterà le opportune modifiche. Ma non finisce qua. È infatti previsto un piano di monitoraggio trimestrale, in cui lo Stato membro beneficiario riferirà circa i progressi compiuti nel raggiungimento degli impegni assunti. La quadratura del cerchio arriva infine con il pagamento a stati di avanzamento. Niente riforme? Niente soldi.
  3. L’altro tema ancora da esplorare è quello delle garanzie. Infatti la Commissione, per emettere 750 miliardi di obbligazioni con rating tripla A, deve offrire al mercato ben definite garanzie o capitali accantonati. Al mercato non basta sapere che, nel prossimo bilancio 2028-2034, saranno previste entrate aggiuntive (proprie della Ue o maggiori contributi degli Stati membri). Non a caso, nella proposta Merkel-Macron del 18 maggio scorso, è scritto ben chiaro che i sussidi sono “connessi ad un piano di rimborso vincolante”. Il tema è ancora nell’ombra ma gli Stati membri si devono impegnare già, ora per allora, altrimenti addio tripla A. Attendiamo ancora dettagli su questo.
  4. Accertato che tutta la polpa dei 500 miliardi di sussidi si concentra nei 335 miliardi del Rrf (di cui 68 disponibili per l’Italia), rileviamo che i 250 miliardi di prestiti si aggiungono ai sussidi solo se lo Stato membro dimostra che le riforme e gli investimenti pianificati sono tali e tanti da eccedere i sussidi disponibili. Ecco che arrivano in soccorso i prestiti. Ma non sono affatto automatici e quindi i 172 miliardi diventano una bufala.
  5. L’agenda di riforme ed investimenti – proposta annualmente entro il 30 aprile fino al 2022, ma auspicabilmente anticipata ad ottobre di quest’anno – sarà valutata dalla Commissione, per verificarne la coerenza con gli obiettivi predefiniti. Sarà quindi approvata con una decisione ufficiale comunicata al Parlamento ed al Consiglio Ue. Il punto poco sottolineato è che, con questo piano, viene cancellato, con un tratto di penna dopo un anno e mezzo di trattative, il BICC (strumento di bilancio per la competitività e la convergenza). La differenza tra Bicc e Rrf è enorme: col primo i governi nazionali avevano un maggiore ruolo nel definire le linee guida strategiche e la Commissione avrebbe solo supervisionato l’implementazione dei programmi; inoltre era permanente, non temporaneo come il Rrf. Col secondo, la Commissione sale in cattedra e costringe i governi a stare dentro (o fuori non beccando un cent) il suo perimetro. E quali sono le riforme che piacciono alla Commissione? Basta leggersi le ben 1993 specifiche disposizioni contenute nel protocollo d’intesa firmato tra Commissione e Portogallo per ottenere il prestito del Mes. Un diluvio normativo che disciplina praticamente tutto lo scibile della politica economica del Paese che deve essere reso virtuoso. Le linee guida del Rrf sono le stesse: competitività dei mercati, flessibilità del lavoro, crescita potenziale. Abiti buoni per tutte le stagioni che la Commissione non vede l’ora di far indossare alla reproba Italia. Ma qui non si contestano le riforme in sé, quanto il fatto che ci siano imposte come si fa con scolaretti indisciplinati. Un Paese come il nostro può e deve identificare autonomamente le priorità e finanziarle a testa alta davanti ai risparmiatori.
  6. Qualcuno ha fatto il conto dei danni che riceverà il nostro Paese a causa del suo assoggettamento al Patto di Stabilità a partire dal 2021/2022? Abbiamo già dimenticato i danni delle “riforme” concepite a fine 2011 dal governo Monti, per renderci “credibili” in Europa, e causa di quasi 3 anni di recessione fino al 2014?
  7. Tutti si concentrano sul fondo aggiuntivo da 750 miliardi, ma pochi si preoccupano di cosa potrebbe accadere al bilancio “ordinario” da 1.100 miliardi circa, che ci ha visto contribuenti netti per 36 miliardi nel precedente settennio. L’uscita del Regno Unito, contribuente netto per circa 70 miliardi, complicherà ulteriormente questa partita, il cui saldo inciderà pesantemente sul bilancio complessivo.
  8. La Bce sta acquistando titoli (prevalentemente pubblici) al ritmo di 8 miliardi al giorno. Comprendiamo che bisognava fare qualcosa per alleggerire la pressione sulla Lagarde. Ma chi pensava di sostituire tale pressione con somme erogate lentamente, tardi ed in misura modesta, forse ha sbagliato i conti. Il 4 giugno, data del prossimo consiglio direttivo della BCE, si avvicina e quel giorno potremo capire tante cose.

Le domande su cui il nostro Paese dovrebbe interrogarsi seriamente, senza l’adesione fideistica che ha caratterizzato il nostro sì in passato, sono numerose:

  1. ammesso e non concesso che il saldo puramente finanziario di tutto il nuovo bilancio da 1.850 miliardi sia favorevole all’Italia, qual è il costo occulto che il nostro Paese sosterrà a causa della obbligatoria destinazione della spesa verso attività o settori forse non prioritari?
  2. In altre parole, meglio spendere 100 di proprio denaro (indebitandosi per 100) per finalità definite all’interno del normale circuito democratico previsto dalla nostra Costituzione o spenderne 120, indebitandosi per 100 per fare cose scelte da altri e sprecare probabilmente una quota rilevante di quella spesa?
  3. Infine, siamo sicuri che tutto questo armamentario non faccia la fine del Bicc e resti sepolto in qualche cassetto? Dopo olandesi e svedesi, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha definito “assurdo e perverso” il Recovery Fund proposto dalla Commissione e ieri pure gli austriaci hanno posato la loro pietra tombale. Qualcuno ha forse esultato in anticipo?

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