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Che cosa (non) va nel Contratto a 5 stelle del governo Di Maio-Salvini

L’intervento di Augusto Bisegna e Carlo D’Onofrio sul governo in fieri tra Movimento 5 Stelle e Lega Per non restare con il tonno sullo stomaco è possibile, forse perfino probabile, che Luigi Di Maio e il suo alleato Matteo Salvini si preparino a rimetterlo nella scatoletta. Per ripetere l’operazione, dopo aver ammorbidito ancora un po’…

Per non restare con il tonno sullo stomaco è possibile, forse perfino probabile, che Luigi Di Maio e il suo alleato Matteo Salvini si preparino a rimetterlo nella scatoletta. Per ripetere l’operazione, dopo aver ammorbidito ancora un po’ le resistenze di chi si mostra scettico nei confronti delle promesse grillo-leghiste, il tempo c’è. L’importante è non cadere nel tranello di governare sul serio, che sarebbe cosa fatale per chi ha imbrogliato i fatti e ha nascosto la realtà dietro la cortina fumogena di un contratto di governo.

Carlo Calenda l’ha detto in un’intervista sul Foglio: il disegno è quello di installarsi a Palazzo Chigi, mettere in scena la pantomima del governo del popolo osteggiato dai poteri forti interni ed esterni, litigare con l’Europa un giorno sì e l’altro pure, infine precipitare il Paese in nuove elezioni, non prima però di aver impugnato la bandiera della sovranità.

A ben vedere l’unica originalità rintracciabile nel contratto di governo sta nella loro bizzarra combinazione. La flat tax che non è una vera flat tax convive con un reddito da cittadinanza i cui contorni sono ormai talmente indefiniti da renderlo pressoché ingiudicabile. Le coperture, poi, sono un arabesco indecifrabile.

Il principio di non contraddizione non ha molti fan da quelle parti, e si sapeva. Ma che dire di un documento che si apre con un omaggio alla Costituzione per poi farla secondo alcuni a pezzi la Costituzione, tra l’inquietante comitato che dovrebbe porre sotto tutela l’esecutivo e l’ancor più raccapricciante introduzione del mandato imperativo, che sottometterebbe il Parlamento ai server della Casaleggio&Associati e alle gazebate leghiste? Un assaggio di quello che ci aspetta se i nuovi barbari, come li ha battezzati il Financial Times, entreranno nella stanza dei bottoni lo abbiamo avuto infatti con la pressoché contemporanea consultazione delle loro basi.

In questo programma – pardon, contratto, che altrimenti a Di Maio vengono le convulsioni – brilla per la sua totale insignificanza. Il capitolo sul lavoro, che vi appare trapiantato a casaccio come su un corpo refrattario. Non si parla mai di produttività, di innovazione, la rivoluzione digitale fa un comparsata fugace in una riga e poi si inabissa subito per cedere il passo a qualche generica considerazione sulla formazione. Forse per non turbare troppo le imprese e le loro rappresentanze la comparsa del Jobs Act, assente nella bozza circolata nei giorni precedenti, è accompagnata da timidissimi propositi di ridurre il precariato, altro che le maledizioni scagliate per anni e rinnovate in campagna elettorale. Una strizzatina d’occhio sui voucher, cui un tempo Di Maio riconduceva tutti i mali della terra, e il gioco è fatto.

A conferma di quanto realmente interessi il lavoro alle teste d’uovo impegnate per giorni a spremersi le meningi attorno ad un tavolo che, finisca come finisca, un record l’ha già messo a segno, quello delle caricature distillate in Rete dai buontemponi di cui l’Italia non è mai sprovvista, nemmeno nei frangenti più drammatici, vale la pena soffermarsi sul caso Ilva. La maggiore cautela dell’ultima stesura è solo apparente: il destino dello stabilimento di Taranto resta la chiusura come certifica il “programma di governo” e che ha scatenato la reazione immediata di Marco Bentivogli segretario generale della Fim Cisl che ha attaccato : “non cederemo mai alle intimidazioni dello squadrismo che in queste ore a taranto impedisce la piena agibilità democratica. E sia altrettanto chiaro, non staremo con le mani in mano, se si vuole lasciare i lavoratori a casa e la città vittima di una scelta ambientale dannosa, non staremo fermi e daremo vita alla mobilitazione totale”.

Il programma – così va chiamato in italiano – prevede la riconversione economica basata sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti, lo scioglilingua dietro il quale si nascondono le reali intenzioni dei suoi ideatori. Tranquilli però: quando Taranto si ritroverà con ventimila posti di lavoro in meno provvederanno la Fiom, che in Puglia ormai si è ridotta a un costola dei 5 Stelle (si legga al riguardo la ricostruzione di Lidia Baratta su Linkiesta e il bel quadretto che ne emerge), e Michele Emiliano a tirar fuori dal loro cilindro ventimila stipendi con cui sfamare lavoratori e rispettive famiglie, insieme a tutti quegli artisti da Brunori Sas a Michele Riondino che il primo maggio si ritrovato a Taranto col grido di battaglia l’Iva va chiusa.

Non è detto però che si arrivi a tanto. Se quel che pensiamo corrisponde al vero, e cioè che si tratti di un “governo da campagna elettorale” dove Lega e 5 Stelle cullano il disegno di tornare dagli elettori in breve tempo per avere mano libera non solo, come dice Salvini, sugli immigrati, ma sulle libertà sancite dalla Costituzione a tutela della democrazia, forse assisteremo alla rovina delle Repubblica prima che a quella dell’Ilva. In fondo è proprio il contratto ad un autorizzare questo sospetto, disseminato com’è di trovate demagogiche che, più che a governare, sembrano preordinate ad una nuova campagna elettorale (e alla definitiva uscita dal consesso delle democrazie occidentali). A che scopo altrimenti parlare in un programma di governo – pardon, contratto – di chiusura dei campi nomadi o reclamare l’instaurazione di una teocrazia giustizialista attraverso misure come l’agente provocatore?

Sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia ha scritto che è ”giunta l’ora di pensare in modo netto e forte. Di cominciare a pensare in termini di vera e propria salvezza della Repubblica, come fu altre volte nella nostra storia allorché si trattò di salvezza nazionale. Stiamo attenti: il punto di non ritorno potrebbe essere più vicino di quanto crediamo”. Ci uniamo al professore, rinsavito dopo essere scivolato nel 2013 sulla buccia di banana pentastellata. Ma speriamo che soprattutto dalle parti del fu glorioso quotidiano di Via Solferino, cui non a torto, viste le sue ambiguità passate e recenti, Marco Taradash da qualche tempo ha cambiato l’indirizzo domiciliandone maliziosamente la sede in via Caporetto, sia venuto il momento di una riflessione che archivi gli anni spensierati dell’anticastismo e suoni la sveglia alla bella addormentata, alias l’elité di questo povero Paese. Non è mai troppo tardi.

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