La riunione, cruciale, è fissata alle ore 18.30 di domani: il comitato di presidenza dell’Abi si riunisce per definire una accelerazione sul rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro che interessa 280.000 dipendenti delle banche italiane, vale a dire, solo per restare ai grandi gruppi, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Monte dei Paschi di Siena, Credit Agricole e Bnl Bnp Paribas. Obiettivo dell’incontro è dare una delega al Comitato affari sindacali e del lavoro della stessa Associazione bancaria per provare a chiudere il negoziato con i sindacati probabilmente entro la fine di novembre. La “delega” è una prassi dell’Abi, prevista dalle regole interne di Palazzo Altieri: un passaggio fondamentale che solitamente anticipa la fase finale del negoziato e la successiva firma del nuovo contratto nazionale.
L’aria che si respira sembra positiva, tant’è che nelle ultime settimane c’è stata una accelerazione nelle interlocuzioni fra banche e sindacati. Ragion per cui non sarà l’esecutivo dell’Abi, in agenda il 16 novembre, ma il Comitato di presidenza, domani convocato in via straordinaria, a delegare il presidente del Casl, Ilaria Dalla Riva, e il direttore generale dell’Associazione bancaria, Giovanni Sabatini, a tentare di chiudere il rinnovo. Il quadro, in ogni caso, sarà più chiaro il 9 novembre, quando è prevista una riunione in plenaria tra i rappresentanti dell’Abi e quelli di tutte le organizzazioni sindacali, Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin. Quello di giovedì prossimo è un incontro rilevante, ma è impossibile immaginare che ci sia già la firma sull’accordo di rinnovo.
Il piatto forte di questo negoziato, curiosamente tenuto sotto i riflettori anche fuori del mondo del credito, con occhi un po’ strabici, è l’aumento economico da 435 euro medi mensili chiesto dai sindacati bancari, da spalmare però in un triennio e non in un anno, contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di stampa. Non si spiega per quale motivo alcuni media e osservatori stiano mettendo a confronto, con dei contenuti politicamente non corretti, quello che accade nel settore bancario con situazioni, appunto non paragonabili, di altri comparti dell’economia italiana. Si agita, in particolare, il vertice di Confindustria, il quale intravede in quei 435 euro una minaccia per gli industriali, come se il rinnovo del contratto Abi rappresentasse un pericoloso precedente. In Confindustria, affezionati ancora alle “catene di montaggio”, fanno insistentemente riferimento alla produttività delle industrie, ma il paragone fra fabbrica e banca non sta in piedi: perché se da una parte ci sono linee di produzione e beni sul mercato, dall’altra parte c’è un mestiere, socialmente rilevante: l’intermediazione finanziaria, che non è una categoria merceologica. Un ambito talmente specifico – quello in cui si maneggiano il denaro e i risparmi di famiglie e imprese – che da sempre ha convinto le banche ad avere una loro associazione datoriale (prima Assicredito, poi Abi), rifiutando perentoriamente l’idea di entrare in altre associazioni di categoria per la rappresentanza sindacale. Un distinguo politico di peso che va avanti da oltre 70 anni. O, forse, a qualcuno ha dato fastidio che l’amministratore delegato del primo gruppo bancario europeo, Carlo Messina, abbia più volte detto pubblicamente che con o senza accordo in Abi, Intesa pagherà ai propri dipendenti i 435 euro di aumento richiesto dal sindacato, più il ripristino di una parte del trattamento di fine rapporto, congelato dal 2012.
Quanto, più nel dettaglio, alle richieste economiche dei sindacati, gli ultimi dati sulle trimestrali certificano che le pretese di aumento sono più che legittime: Unicredit ha chiuso i primi nove mesi dell’anno con 6,7 miliardi di euro di utili, Intesa con 6,1 miliardi, anche se prevede di chiudere l’anno con oltre 7,3 miliardi di profitto. Numeri che lasciano intravedere per l’intero settore bancario del Paese un 2023 assai più roseo del 2022, quando gli utili complessivi, spinti dall’aumento del costo del denaro, volarono comunque a 25 miliardi. Risultati eccezionali che, stando alle previsioni di Messina, andranno avanti ancora a lungo. Le richieste economiche, dunque, sono legittimate dai numeri e il riconoscimento ai bancari appare doveroso. Del resto, è stato lo stesso Messina, lo scorso 27 ottobre, in occasione di un’iniziativa sociale a Brescia, a ribadire la necessità di garantire ai lavoratori l’aumento di stipendio. Una posizione che, peraltro, era stata resa nota dal capo di Ca de’ Sass al congresso nazionale della Fabi di giugno, quando è stato confermato, con un plebiscito, Lando Maria Sileoni, alla guida della prima organizzazione del settore.
Vale la pena sottolineare, fra le dichiarazioni a Brescia del leader del primo gruppo bancario (presenti all’evento tutti i segretari generali delle organizzazioni sindacali, invitati da Intesa), il passaggio in cui si fa riferimento al negoziato tra banche e sindacati. Pur avendo ritirato la delega sindacale al Casl dell’Abi, lo scorso febbraio, Intesa Sanpaolo è rimasta nell’Associazione bancaria e domani, con un suo rappresentante nel comitato di presidenza, comparteciperà, strategicamente, alle decisioni dell’Abi sul rinnovo del contratto nazionale. Stesso discorso per il 16 di novembre quando si riunirà l’esecutivo Abi, al quale parteciperanno, a pieno titolo, anche i rappresentanti di Intesa. Ma la firma del contratto nazionale non si tradurrà nel rientro automatico nel Casl da parte della banca guidata da Messina: i mal di pancia restano e il fatto che il settore si sia ricompattato nel braccio di ferro col governo sulla tassa per gli extraprofitti potrebbe non essere sufficiente a ristabilire la pax totale.
Nell’esecutivo Abi, d’altronde siedono anche esponenti di Federcasse, l’associazione che gestisce il contratto nazionale del credito cooperativo. Nelle Bcc lavorano circa 35.000 addetti, i quali guardano con attenzione alla vertenza Abi perché di solito il loro rinnovo segue a ruota quello dei cugini delle altre banche. Mentre viaggia con tempi diversi il negoziato del contratto dei dirigenti, nonostante le parti, sia datoriali siano sindacali, siano le stesse.
Quel che è certa, come i radar di StartMag hanno potuto captare, è la determinazione delle banche a chiudere in tempi rapidi il negoziato. L’urgenza dei banchieri sarebbe dettata da ragioni di bilancio, ma i sindacati non sono affatto propensi a fare regali, lasciando sul tavolo gli arretrati già maturati per il 2023 (il contratto è scaduto a fine 2022 ed è stato prorogato fino al prossimo 31 dicembre). Così come non sarà oggetto di trattativa il ripristino della base di calcolo del trattamento di fine rapporto (tfr). Lo sconto sul tfr nasce nel 2012, in piena crisi finanziaria ed è servito a sostenere il settore in una fase complessa, caratterizzata anche da alcuni importanti dissesti e salvataggi di banche. Tuttavia, quell’accordo, che garantisce un risparmio sul tfr tra lo 0,8% e l’1% del costo del lavoro, aveva un principio e una fine, come sapevano sin dall’inizio le stesse banche. Non si tratta, insomma, di un ulteriore riconoscimento economico, ma soltanto di ripristinare l’ordinaria amministrazione. Se i sindacati, nell’ambito di un normale do ut des, saranno disposti a concedere qualcosa, sarà sul fronte della flessibilità; altre concessioni potrebbero arrivare sul fronte dei trasferimenti fra sedi, per alcuni ruoli, con l’allungamento del raggio chilometrico. Mentre il Fondo per l’occupazione giovanile (Foc) potrebbe essere usato anche per incrementare gli stipendi di quanti, vicini alla pensione, si rendessero disponibili a passar al part time per favorire l’assunzione di under 35. La revisione degli inquadramenti, invece, verrebbe trasferita a una trattativa futura. Le banche, poi, potrebbero aprire le porte dei consigli di amministrazione ai rappresentanti dei lavoratori (si guarda al modello tedesco): qui però il contratto nazionale ha le armi spuntate e quindi tutto andrà definito all’interno delle singole aziende. Per ora c’è solo un caso: la Fabi rappresentata da Mauro Paoloni nel cda di Banco Bpm, dove l’ad Giuseppe Castagna ha sempre dimostrato un importante sensibilità sociale verso i propri dipendenti.
Quello che appare evidente è, nonostante l’attuale frattura in atto all’interno del Comitato sindacale di Abi, dove i rappresentanti di Intesa partecipano come osservatori, è una forma di gelosia mista ad invidia tutta italiana di altri settori verso le banche. Che da sempre ha risolto i problemi al proprio interno, con importanti accordi, fra sindacati e Abi che hanno fatto scuola. Gli esuberi, dal 2000 sono stati tutti gestiti dal Fondo di solidarietà nazionale (finanziato da banche e lavoratori) solo con prepensionamenti volontari, senza un euro a carico del bilancio dello Stato, che hanno permesso al settore l’esodo volontario di decine di migliaia di dipendenti bancari e contemporaneamente la nascita del Foc finanziato dall’intera categoria (280.000 addetti) che ha permesso 40.000 assunzioni anche quando le banche chiudevano i bilanci in perdita. Se le relazioni sindacali in Abi, da sempre, sono proficue, concrete e innovative non possono diventare un freno soltanto perché in altri settori manca lungimiranza politica, professionalità e creatività. Non sarà qualche inevitabile gelosia fra alcuni amministratori a creare problemi nel rinnovo di questo contratto perché, nei momenti che contano, le parti si sono sempre ricompattate, pur in un clima di grande competizione, nell’interesse dell’intero settore, banche e dipendenti. Ed alcuni, recenti veti posti dai rappresentanti di banche straniere presenti in Italia, con responsabilità e buon senso, potrebbero così venire meno. D’altronde, più volte i sindacati hanno riconosciuto l’importante e fondamentale ruolo sociale che Cariparma prima e Credit Agricole dopo, con la guida di Giampiero Maioli, ha garantito ai territori come, ad esempio, la sede della banca a Parma, costruita tutta in chiave green e a disposizione della regione. Anche perché, se le trattative dovessero saltare e i sindacati dovessero spostare l’attenzione sull’opinione pubblica circa la dimensione esorbitante degli stipendi dei manager, soprattutto in un momento così difficile per l’economia nazionale e internazionale, i vertici del settore ne pagherebbero le conseguenze da un punto di vista politico e di immagine. In presenza anche di un governo che, come alcune recenti vicende hanno dimostrato, non è disposto a garantire corsie preferenziali ai banchieri. Quello che gli altri settori produttivi non vogliono digerire è che tutte le richieste dei sindacati bancari sono legittime, giustificabili e comprovate da argomenti e numeri inattaccabili. E un’eventuale rottura sul tavolo negoziale porterebbe a una grave interruzione dei rapporti, mettendo a rischio, come primo effetto, la stessa sopravvivenza di Abi.