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Energia

Cosa ha in serbo la Commissione europea per l’Italia

Fatti, tesi e scenari della Commissione europea sui conti pubblici dell'Italia. L'analisi di Giuseppe Liturri

 

L’intervento la scorsa settimana del Commissario Ue Paolo Gentiloni alla quinta conferenza biennale della Bce sulla politica fiscale e sulla governance dell’Unione economica e monetaria ci offre l’occasione per fare il punto sul cantiere della riforma del Patto di Stabilità.

E sembra di essere in presenza dei lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria: si ha l’impressione che stia migliorando qualcosa, ma in realtà gli automobilisti continuano a penare. Gentiloni si è limitato a ripetere stancamente il solito mantra: “La Commissione europea presenterà i suoi orientamenti sui possibili cambiamenti alle regole di governance economica Ue il prossimo anno, con l’obiettivo di raggiungere un’ampia base di consenso in tempo per il 2023, quando non ci sarà più la clausola generale di sospensione del Patto di stabilità”. Queste sono le chiacchiere, i fatti invece sono quelli che seguono, accaduti nelle ultime quattro settimane, a partire dalla presentazione del documento programmatico di bilancio (DPB) a cui ha fatto seguito il 24 novembre il rituale parere emesso dalla Commissione.

Con riferimento a tale parere, credevamo, sbagliandoci, che il ministro dell’Economia Daniele Franco avesse potuto ricevere dalla Commissione un trattamento migliore rispetto ai suoi predecessori Roberto Gualtieri, Giovanni Tria e Pier Carlo Padoan.

In effetti il tappeto rosso steso dalla gran parte della stampa italiana – che si è appiattita sulla versione dal titolo “la Commissione promuove l’Italia, ma richiama l’attenzione sulla spesa corrente troppo alta” – lasciava pensare a un trattamento di favore o almeno equo. Quei commenti hanno fatto passare in secondo piano quello che è molto più di un richiamo, ma è l’effetto del pieno operare del Patto di Stabilità. Anzi, considerando che siamo appena usciti da una recessione di portata epocale e che quindi c’era da attendersi una maggiore clemenza, il giudizio formulato dalla Commissione sul documento programmatico di bilancio (Dpb), inviato il 20 ottobre a Bruxelles, non fa sconti di sorta e mette una pesante ipoteca sull’evoluzione dei conti pubblici del nostro Paese.

Ricordiamo che il Dpb contiene già “in nuce” tutti i tasselli fondamentali della legge di bilancio 2022 il cui percorso parlamentare è cominciato proprio mercoledì 24 novembre al Senato. Il deficit/Pil previsto al 5,6%, dal 9,4% del 2021, diminuisce per il progressivo esaurirsi delle misure straordinarie di contrasto alla crisi indotta dalle misure di contenimento della pandemia e per la robusta crescita, prevista intorno al 4,7% nel 2022. La valutazione della Commissione – da esprimersi ogni anno entro il 30 novembre – ci riporta con la memoria al novembre 2018, quando il giudizio fu negativo e costrinse il governo Conte a ridurre la previsione di deficit/PIL dal 2,4% al 2,04%, tenendo bloccato l’esame delle Camere fino all’inizio di dicembre.

Mentre da noi la notizia è scivolata all’interno del solito quadro elogiativo a prescindere verso il governo Draghi, a cui siamo abituati da mesi, il Financial Times ha ripreso la notizia dando evidenza proprio dell’aspetto più sorprendente: “il giudizio della Commissione è una battuta d’arresto (setback) per Mario Draghi, il cui prestigio internazionale avrebbe dovuto migliorare i rapporti tesi tra Roma e Bruxelles sugli obiettivi di bilancio”, questo il secco commento del quotidiano londinese.

Punto nel vivo, la replica di Draghi, in occasione degli incontri romani con Emmanuel Macron, non si è fatta attendere e il premier ha esplicitamente invitato la UE a porre mano a una riforma “inevitabile” delle regole di bilancio.

Ma chi si sorprende delle parole della Commissione, che ci riconducono alla realtà di regole pensate male e applicate peggio, si illude che qualcosa sia cambiato con la pandemia e che il Patto di Stabilità sia stato sospeso. Non è così e lo scriviamo da tempo. E l’ha confermato proprio l’European Fiscal Board (Efb, organo consultivo della Commissione) il 10 novembre, dichiarando che l’attivazione della clausola di salvaguardia non è un “tana libera tutti” e non blocca nulla. Consente solo di adottare una flessibilità aggiuntiva in caso di gravi difficoltà economiche ed è ciò che ha fatto la Commissione, decidendo di non far scattare la procedura per deficit e debito eccessivi, con una valutazione del tutto politica. Non c’è stato alcun automatismo.

Se queste sono le premesse di metodo, è comprensibile che la Commissione nelle otto pagine della sua valutazione, non sia stata tenera con l’Italia ed abbia svelato, una volta di più, la trappola in cui ci siamo cacciati con il Recovery Fund (lo strumento del Rrf, nello specifico).

Infatti, secondo Bruxelles, l’orientamento di bilancio (espansione o contrazione) deve essere misurato escludendo le spese straordinarie legate alla crisi, ma includendo le spese del Rrf. In altre parole, poiché abbiamo un tetto alla spesa che resta inalterato e nei prossimi anni gli investimenti del Rrf avranno un ruolo preponderante, allora bisogna contenere le altre tipologie di spesa, soprattutto quella corrente, altrimenti sforiamo il tetto. Non è uno scherzo, purtroppo. Ci sono già le spese del RRF che contano per l’orientamento espansivo di bilancio e nulla può aggiungersi ad esse. E tale orientamento della Commissione non è una novità, perché anche nel DEF e nella NADEF, il governo aveva descritto in dettaglio questo circolo vizioso. Per riparare il tetto della casa, dobbiamo tagliare la spesa per cibo e riscaldamento.

I rilievi della Commissione non si concentrano tanto sul 2022, di cui salutano con favore il pressoché totale azzeramento delle misure straordinarie per la pandemia, ma sugli anni successivi. Attenzione particolare è dedicata alle garanzie statali sui prestiti bancari, che sono pari al 8,8% del PIL, una cifra considerevole che proietta, in prospettiva, una elevata incertezza sui conti pubblici.

Ma la cosa che proprio a Bruxelles non mandano giù è che nel 2022 la spesa corrente primaria (al netto degli interessi) contribuisca all’orientamento fiscale espansivo per l’1,5% del PIL, mentre gli investimenti del RRf per lo 0,6% e quelli finanziati con risorse nazionali per lo 0,3%.

Passi per il 2022, ci dicono, ma poi la musica deve cambiare, aggiungono subito dopo. E svelano la promessa che il governo ha già fatto per il biennio successivo: il deficit e il debito saranno ridotti con la crescita ma anche con “appropriati avanzi primari”, conseguiti attraverso il contenimento della spesa pubblica e l’aumento delle entrate fiscali derivanti dalla lotta all’evasione. Ma, come spesso accade quando ci si genuflette in anticipo, alla Commissione non basta quanto già promesso dal governo e obietta che “l’Italia non pianifica di limitare a sufficienza la crescita della spesa corrente” ed esplicitamente “invita l’Italia ad adottare le misure necessarie per contenere tale crescita”.Il livello del debito e i rischi sulla sua sostenibilità richiedono maggiore prudenza nelle politiche di bilancio”, aggiungono. Concludono, sibillinamente, invitando l’Italia a una costante revisione delle misure di sostegno adottate, tenendosi pronta ad adattarle al mutare delle circostanze.

Questo è, “per tabulas” il sentiero che si sta preparando per l’Italia e a cui finora il governo Draghi ha promesso di opporsi a parole, ma nei fatti adempiendo alle vecchie regole.

Augurandoci di essere smentiti dai risultati che Draghi sperabilmente conseguirà su questo fronte, prendiamo atto che le regole attuali producono i soliti disastrosi effetti sulle prospettive di sviluppo del nostro Paese, a prescindere da chi siede a Palazzo Chigi.

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