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ECONOMIA

Come va il deficit fiscale negli Stati Uniti

Elezioni Usa e prospettive fiscali. L'analisi di Sonal Desai, CIO di Franklin Templeton Fixed Income

Nella prima metà del periodo considerato, la politica fiscale statunitense ha mantenuto un profilo relativamente prudente, con un deficit medio di poco superiore all’1% del Pil. Poi la crisi finanziaria globale ha segnato un punto di svolta, innescando una fase  di ripetute emergenze e di maggiore lassismo fiscale, che ha  portato il deficit medio annuo al 6,5%.

La crisi finanziaria globale ha innescato una massiccia e necessaria risposta di stimolo, e la politica fiscale è rimasta espansiva durante la difficile ripresa economica; nel periodo 2009-2012  il deficit medio ha raggiunto l’8,4% del Pil. Dal 2013 al 2019, la politica fiscale ha adottato un approccio più prudente, con un deficit medio del 3,5%, un valore più moderato ma comunque superiore a quello pre-crisi. I lockdown imposti dal Covid-19 hanno innescato una nuova, massiccia risposta fiscale, con un aumento della spesa pubblica volto a compensare l’arresto forzato dell’economia privata e un conseguente deficit che ha sfiorato il 15% nel 2020. Benché questa reazione immediata fosse inevitabile, la persistente espansione fiscale nel periodo 2021-2023 solleva interrogativi sulla sua sostenibilità. Nel 2021, nonostante  la rapida ripresa economica successiva alla fine dei lockdown,  il deficit fiscale ha superato il 12% del Pil. Nonostante la continua espansione del Pil a un ritmo sostenuto, il deficit ha raggiunto una media allarmante dell’8% del Pil nel periodo 2021-2023.

L’imponente stimolo fiscale varato nel 2021, in un quadro di ripresa economica già in atto, ha giocato un ruolo cruciale nell’improvvisa accelerazione dell’inflazione, mentre l’elevato livello dei disavanzi ha complicato notevolmente gli sforzi  successivi volti a riportare l’inflazione sotto controllo.

Alimentato da disavanzi crescenti, il debito pubblico statunitense è raddoppiato in rapporto al Pil, passando da meno del 50% nel 1995 a quasi il 100% nel 2023. Inizialmente, questo aumento non ha suscitato allarme. Gli oneri per interessi netti si sono ridotti considerevolmente, passando da una media intorno al 3% del Pil negli  anni ’90 all’1,5% circa al momento della crisi finanziaria globale,  mantenendosi su questo livello più basso anche con l’aumento del debito.

La politica dei tassi zero e il quantitative easing hanno contribuito a mantenere i costi di indebitamento del governo estremamente bassi. In quel periodo, la maggior parte degli economisti e istituzioni come il Fondo monetario internazionale incoraggiavano attivamente i governi a indebitarsi maggiormente e a investire, poiché il costo del debito sembrava quasi nullo. Tale suggerimento,  in linea teorica, non era del tutto errato: l’indebitamento  a basso costo per finanziare progetti in grado di promuovere la crescita (ad esempio, infrastrutture) avrebbe potuto innalzare la crescita potenziale nel lungo periodo e ripagare il debito stesso. Tuttavia, l’assenza di vincoli di bilancio può indurre i responsabili politici a decisioni di spesa poco oculate. Ne è conseguito un aumento dei disavanzi e del debito, ma non della crescita potenziale.

Contrariamente alle aspettative di alcuni economisti e della maggior parte dei governi, l’illusione della disponibilità perpetua di denaro a costo zero si è infranta. I tassi d’interesse sono tornati a livelli più in linea con la norma storica, e la spesa per interessi sul debito pubblico ha superato il 2,5% del Pil lo scorso anno, con proiezioni che indicano un ulteriore aumento oltre il 3% quest’anno.

Il quadro avrebbe potuto essere ancora più fosco (e lo diventerà, come dimostrerò in seguito). L’inflazione, pur comportando notevoli svantaggi politici per un governo, offre alcuni benefici compensativi. In particolare, l’inflazione erode il valore reale del debito a vantaggio dei debitori. L’elevata inflazione degli ultimi tre anni ha sostenuto la crescita del Pil nominale, contribuendo a mantenere sotto controllo il rapporto debito/Pil.

Tuttavia, ora che l’inflazione sta tornando sotto controllo, sostenere una crescita così robusta del Pil nominale diventa praticamente impossibile. Negli ultimi tre anni, il Pil nominale è cresciuto in media di circa il 9% all’anno, grazie a una crescita reale del Pil  di poco superiore al 3% all’anno (dovuta in particolare alla forte ripresa del 2021) e a un’inflazione media di poco inferiore al 6% all’anno.2 Se l’inflazione dovesse scendere dal 6% al 2%, come previsto, per mantenere invariata la crescita del Pil nominale al 9%, la crescita reale del Pil dovrebbe attestarsi intorno al 7% all’anno. È scenario altamente improbabile, considerando che la crescita reale potenziale del Pil è stimata intorno al 2%. In assenza di una crescita nominale così elevata, i consistenti disavanzi fiscali porterebbero nuovamente a un aumento del debito.

Considerando l’andamento attuale e le politiche in vigore, è ragionevole prevedere che i disavanzi fiscali si manterranno su livelli elevati. Le prospettive a breve termine appaiono altrettanto preoccupanti, con disavanzi previsti in media al 5,5% del Pil fino alla fine del decennio. Tuttavia, la previsione del CBO (Congressional Budget Office) si basa su un’ipotesi ottimistica di tassi d’interesse sul debito federale inferiori al 3,5% nel prossimo decennio. Un tasso d’interesse medio più  elevato comporterebbe una maggiore spesa per interessi e un disavanzo ancora più ampio rispetto alle proiezioni del CBO. Guardando oltre, le proiezioni indicano un ulteriore peggioramento, con disavanzi che potrebbero raggiungere l’8% del Pil  e un conseguente rapido aumento del rapporto debito/Pil, come evidenziato dal CBO.

Ritengo che non accadrà. Come affermato dall’economista Herbert Stein, “Ciò che non può continuare per sempre, finirà”. Un’azione correttiva sarà necessaria, e una futura amministrazione dovrà inevitabilmente intervenire con tagli alla spesa e/o aumenti delle tasse. Sarà una scelta difficile: si prevede che le spese nette per interessi superino le spese discrezionali non legate alla difesa già nel 2025, raggiungendo il 3,25% del Pil nominale (il livello più alto dal 1991) e circa il 16% della spesa non per la difesa.3 Con le spese discrezionali non militari già ridotte  e i tagli alla difesa limitati da un contesto geopolitico instabile,  il Congresso dovrà probabilmente scendere a compromessi su un mix doloroso di riforme del welfare (tagli alla sanità e/o alla previdenza sociale) e aumenti delle imposte.

Un’azione del Congresso in questa direzione appare tuttavia improbabile nel breve termine. I programmi politici finora delineati da entrambi gli schieramenti suggeriscono il persistere di ampi deficit nel prossimo mandato, seppur con modalità differenti.  Una vittoria repubblicana manterrebbe verosimilmente le tasse ai livelli attuali con scarsi interventi sulla spesa; una vittoria democratica potrebbe comportare un aumento delle tasse, ma anche un’ulteriore espansione della spesa (molto dipenderà dalla combinazione dei risultati per Casa Bianca, Camera e Senato).

Il peso del servizio del debito pubblico si prospetta notevolmente più gravoso nei prossimi anni rispetto al recente passato. Il governo non potrà più beneficiare di tassi d’interesse estremamente bassi sui propri prestiti, né potrà contare sull’inflazione elevata per mantenere stabile il debito reale a fronte di persistenti ampi deficit.

La prospettiva di una politica fiscale costantemente espansiva rafforza la mia convinzione che il prossimo ciclo di allentamento della Federal Reserve sarà graduale e contenuto – prevedo un totale di 125-150 punti base di riduzione, salvo shock imprevisti. Ciò implicherebbe un tasso sui Fed Funds intorno al 4%, e con tale livello minimo per i tassi a breve termine, nel medio-lungo periodo prevedo un assestamento dei rendimenti dei Treasury  a 10 anni su valori superiori al 5%.

 

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