Da un lato le gaffe dei neofiti della politica, dall’altro i pensieri profondi e preoccupati dei vecchi leader su quello che potrà essere l’immediato futuro. Giuseppe Conte, come al solito ha promesso e rassicurato. Poi parlando di Mario Draghi ha cercato di esorcizzarne la figura, escludendo ogni possibile, anche se lontano, confronto. Lo avrei proposto per la presidenza della Commissione europea, al posto di Ursula van der Leyen – ha rivelato – ma non ha accettato. Era troppo stanco. Della serie: come banalizzare il più delicato problema dell’Unione europea.
Romano Prodi, al contrario, ha cercato di individuare le possibili linee di marcia per uscire dalla palude in cui l’intera Europa è sprofondata. Due i modelli principali ch’egli vede all’orizzonte. Quello francese, da un lato, e quello tedesco, dall’altro. Modelli che scontano non solo differenze di natura economica, ma la diversa tempistica politica. Per Emmanuel Macron “le elezioni sono ancora lontane”, in Germania, invece, “il Paese è mobilitato per le elezioni del prossimo anno”.
Al di là della diversa congiuntura politica, restano comunque le differenze. La politica francese é tutta concentrata sull’offerta: aumento delle produttività ed efficienza dell’impresa, risorse per la formazione delle nuove generazioni, investimenti nella ricerca e nelle infrastrutture. In altre parole l’uso massiccio di tutto l’armamentario colbertista per far fare alla Francia un salto di qualità. Nessun accenno, invece, a possibili riduzioni delle tasse, sebbene in Francia la pressione fiscale sia la più alta dell’Eurozona. Ma non è questo il momento di abbassare la guardia. La grandeur richiede un qualche sacrificio.
In Germania la musica è diversa, anche in vista (ma non solo) delle prossime elezioni. Qui si punta soprattutto al sostegno della domanda interna: “Con particolare attenzione alle esigenze delle famiglie, dei settori e delle imprese”. Scelta giustificata da una “capacità concorrenziale” talmente “elevata” da non far correre rischio alcuno. Si può quindi pensare al prossimo. Ed, al tempo stesso, attendere senza trepidazione il risultato delle urne.
Analisi condivisibili? Certamente. Esse trovano conferma nei rispettivi quadri macroeconomici. La differenza principale tra i due Paesi sta nel diverso assetto delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Dal 2007 quella francese, che negli anni antecedenti la crisi, mostrava un leggero surplus, ha fatto registrare un deficit continuo, seppure contenuto entro valori compresi tra il meno 0,5 e il meno 1 per cento del Pil. In Germania, invece, il surplus è costante fin dalla nascita dell’euro. Dopo il massimo del 2016 (8,6 per cento del Pil) è leggermente sceso. Ma si tratta, pur sempre di valori, superiori al 6 per cento. Per altro, teoricamente fuori legge, secondo le regole europee.
Gli andamenti divergenti dei due Paesi mostrano, per la Francia, una sofferenza sul terreno della sua forza produttiva. Nulla di preoccupante, ma le incognite del mondo del dopo Covid spingono le élite di quel Paese a muoversi in anticipo. Da parte tedesca, invece, vale il contrario. Il suo modello di sviluppo, è export led. Trainato cioè dalle esportazioni e basato sulla compressione della domanda interna, rispetto al potenziale produttivo esistente. La sua crescita economica finora é dipesa quindi dalla dinamica del commercio internazionale e dal valore dell’euro, nei confronti delle altre monete: specialmente il dollaro e lo yen. Ma la moneta americana, a seguito delle ultime decisioni della FED – nessun timore per la ripresa eventuale dell’inflazione – tende a svalutarsi. Quindi quegli spazi si restringono. Ed allora è bene puntare sulla ripresa della domanda interna.
E l’Italia? “Il nostro sistema – argomenta Prodi – senza un’attenzione primaria verso l’innovazione, la ricerca, l’istruzione e le indispensabili riforme della nostra pubblica amministrazione, non è più in grado di sopravvivere”. Anche in questo caso, difficile non convenire. Seguendo lo stesso schema, l’Italia è una via di mezzo tra il modello francese e quello tedesco. Ha un motore efficiente, come mostra il forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (fino al 3 per cento del Pil negli ultimi anni), ma troppo piccolo per trascinare l’intero Paese. Ed ecco allora la necessità di una politica economica che punti soprattutto alla crescita, utilizzando anche il volano del mercato interno. Il difficile è trovare il giusto equilibrio e gli strumenti necessari.