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Come e perché Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno snobbato la tassa sugli extraprofitti delle banche

Tassa sugli extraprofitti delle banche: che cosa hanno deciso Intesa Sanpaolo e Unicredit. Il commento di Giuseppe Liturri

È stata la settimana degli annunci dei risultati economici, aggiornati al terzo trimestre, delle due più grandi banche del Paese, Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Numeri esaltanti che hanno fatto la gioia degli azionisti ma che avranno suscitato più di qualche malumore tra Palazzo Chigi e via XX Settembre.

Infatti le due banche sono state anche “costrette” a rivelare l’importo della cosiddetta tassa sugli extraprofitti che lo Stato avrebbe potuto incassare, se le medesime banche non avessero avuto la facoltà di destinare a riserva una somma pari a 2,5 volte l’importo “teorico” di quella tassa.

Cosa che gli amministratori hanno puntualmente fatto – se non lo avessero fatto avrebbero danneggiato le rispettive banche, con relativa responsabilità davanti agli azionisti – sfruttando quella facoltà e rendendo noto che 1,2 miliardi (800 milioni circa Intesa Sanpaolo e 400 circa Unicredit) non arriveranno mai nelle casse del Tesoro. Per quelle casse, è solo una magra consolazione il fatto che non era stata inserita prudenzialmente nei conti alcuna previsione di gettito (chissà perché…) e quindi non si creerà alcun buco.

Di fatto, quella norma è servita soltanto ad obbligare le banche a destinare a riserva, anziché distribuirla ai soci, una quota dell’utile del 2023. Un obbligo che non ha avuto alcuna concreta efficacia, in quanto il flusso di utili si preannuncia così copioso da essere capiente sia per il piano di distribuzione di dividendi già previsto che per la destinazione a riserva prevista dalla legge, come condizione per non versare la tassa.

Ma per conseguire questo obiettivo, c’è già la Vigilanza della Bce che ogni anno emette “raccomandazioni” piuttosto puntuali in materia. Basti ricordare ai divieti alla distribuzione imposti fino al settembre 2021. Quindi nemmeno a questo è servita la norma del governo.

A questo punto, è immaginabile l’imbarazzo per i responsabili comunicazione delle banche nell’annuncio di utili record e di “non tassa” che non poteva che essere “non pagata”. Perdipiù proprio nei giorni in cui il governo nella legge di bilancio, sta raschiando il fondo del barile, tagliando, per esempio, la rivalutazione delle pensioni, per trovare qualche spicciolo da destinare alle fasce sociali più deboli.

E qui, bisogna fare davvero i complimenti al dottor Stefano Lucchini, influente direttore delle relazioni istituzionali e della comunicazione di Intesa Sanpaolo. È riuscito a far passare in secondo piano (ma anche in terzo…) l’enormità costituita dal fatto che, legittimamente, la banca non versi allo Stato oltre 800 milioni, con un’offensiva mediatica su due fronti, aperti a poche ore uno dall’altro.

La mossa contestuale alla pubblicazione dei dati sugli utili e le imposte è stata l’annuncio di un programma di spesa a favore del “sociale e contro le diseguaglianze” per 1,5 miliardi fino al 2027, accompagnata da una descrizione degli interventi e del ruolo istituzionale della banca nel sociale, ripresa giovedì a Brescia in un apposito convegno.

Dopo appena 24 ore è arrivato il secondo colpo ad effetto. Intesa Sanpaolo ha annunciato che si muoverà in autonomia e in anticipo rispetto alle trattative sindacali in corso e che concederà da questo trimestre un aumento medio di 435 euro ai propri dipendenti. Un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni sindacali del credito.

Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, non ha rinunciato a rimarcare il ruolo della banca come “principale istituzione che in Italia si occupa di contrasto alle diseguaglianze e di interventi nel sociale”, invitando “a non banalizzare quando si parla di soggetti che sono delle istituzioni” (chi ha orecchie per intendere, intenda, soprattutto a Palazzo Chigi e dintorni).

Tutto molto bello, avrebbe detto Bruno Pizzul. Un’operazione che dovrebbe essere un caso di studio nelle migliori scuole di comunicazione. Uno “spin” perfetto.

Devono essere imprese commerciali (soggetti di diritto privato) ad occuparsi della produzione di “beni pubblici”, come il benessere dei cittadini e la riduzione delle diseguaglianze, peraltro beni costituzionalmente tutelati? Per quei beni c’è lo Stato, che agisce con istituzioni democraticamente elette che perseguono l’interesse pubblico come unico fine istituzionale e che finanzia quelle iniziative con le tasse versate dai cittadini (banche incluse) e utilizzando il risparmio privato con l’emissione di titoli pubblici. Si sarebbe preferito vedere quegli 800 milioni incassati e spesi dallo Stato, pur con tutte le (mitologiche) inefficienze, ma con i normali presidi di trasparenza e controllo di una democrazia parlamentare rappresentativa. Preferiremmo che le banche facciano… le banche, intermediando risparmi e investimenti finanziari e rendendo conto ai loro azionisti e non somiglino neppure lontanamente ad uno Stato nello Stato. Delle diseguaglianze si occupi chi deve rendere conto a tutti i cittadini e che è passato al vaglio di regolari elezioni, e le banche pensino al ROE.

Qualcuno si ricorda più dei 1,2 miliardi di tasse che lo Stato ha rinunciato ad incassare dalle prime due banche del Paese, che in altri tempi avrebbero dominato le prime pagine dei giornali? Chapeau per il dottor Lucchini.

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