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Come andrà la crescita italiana nel 2022

Il Pil in Italia fra storia e congiuntura. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Per fortuna, chiuderemo il 2021 con un Pil a 1.674 miliardi di euro, ai prezzi del 2015. Una crescita del 6,5 per cento rispetto all’anno precedente. Leggermente inferiore a quella francese, ma decisamente meglio di Spagna (5 per cento) e Germania (appena l’1,4 per cento). Rispetto alle perdite dello scorso anno (8,9 per cento) il recupero è parziale. Ma se le cose andranno come dovrebbero andare, a metà anno, non avremmo più code.

La variazione acquisita fin dall’inizio dell’anno è pari al 2,4 per cento. Ad un soffio da quel 4 per cento che, incrociando le dita, dovremmo raggiungere. Non sarà comunque una traversata tranquilla. Le nubi che si addensano all’orizzonte minacciano tempesta. Ci vorrà, quindi, tanta pazienza e senso di responsabilità. Soprattutto non disturbare il manovratore con le beghe politicanti.

Per capire quanto questo dato sia importante, è bene ricordare cosa abbiamo alle nostre spalle. A partire dal 2007, l’Italia ha subito un susseguirsi di crisi, di origine esterna. Crisi esogene, come dicono gli economisti. La cui gravità – cosa abbastanza nota – non trova riscontro in tutta la sua storia più recente, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Sul piano storico e senza voler andare troppo a ritroso nel tempo, un primo accenno di crisi – marcata dalla caduta del Pil rispetto al periodo precedente – si ebbe agli inizi degli anni ‘80. Riflesso dei cambiamenti intervenuti nella politica monetaria americana, decisa a combattere l’inflazione, dopo anni – il decennio precedente – di permissivismo.

Le decisioni di Paul Volcker, divenuto Presidente della Fed, ebbero un effetto a cascata. Costrinsero la Bundesbank, ch’era la capofila delle Banche centrali europee, a tirare i remi in barca. Da Francoforte la stretta monetaria contagiò tutte le altre Banche centrali. Con l’effetto immediato di abbattere il tasso di crescita dei singoli Paesi. Il punto più basso fu raggiunto nel 1982, quando il tasso di crescita italiano sfiorò lo zero (più 0,2 per cento) e quello dell’Europa occidentale lo 0,6.

Andò anche peggio dieci anni dopo, nel 1992. Ancora una volta – checché se ne dica e pensi – elemento scatenante fu un fattore esterno, l’unificazione tedesca, che moltiplicò le mille fragilità che caratterizzavano la realtà italiana. E che sarebbero poi esplose con Tangentopoli. La riunificazione delle due Germanie fu gestita avendo come punto di riferimento esclusivo gli interessi di quei territori. Per non creare cittadini di prima e di seconda categoria, le élites al comando decisero, in spregio di ogni regola economica e finanziaria, che le due monete – il marco della RFT e quello della DDR – dovevano essere cambiati alla pari: “one to one”.

Una missione impossibile. La domanda interna del nuovo Stato schizzò alle stelle, soprattutto a causa dei maggior consumi dei Lander orientali, dopo i lunghi anni delle privazioni “comuniste”. Immediati i riflessi sulla bilancia dei pagamenti tedesca, che in passato aveva sempre presentato un forte attivo. Con l’inizio dell’unificazione, invece, il passivo divenne persistente, protraendosi fino alla nascita dell’euro. E sarebbe stato anche maggiore se la Bundesbank, con la sua politica monetaria, non avesse sostenuto il cambio, aumentando il tasso d’interesse. Indispensabile per drenare, dall’estero, quelle risorse ch’erano necessarie per consentire la conversione produttiva dei nuovi territori.

L’effetto di quelle politiche, fu la definitiva rottura dei delicati equilibri che reggevano lo SME: il Sistema monetario europeo. Ne pagarono il prezzo soprattutto l’Italia e la Gran Bretagna, che furono costrette a svalutare le rispettive monete – la lira e la sterlina – ma le conseguenze si fecero sentire in tutti gli altri Paesi europei, che, a loro volta, per non svalutare, furono costretti a rialzare i tassi d’interesse, entrando in una spirale competitiva. Il risultato ultimo fu una stretta deflazionistica che portò ad una forte caduta del Pil tanto in Europa Occidentale che in Italia. Per la prima volta, infatti, dalla fine della guerra, comparve il segno meno: meno 0,2 per cento in Europa, meno 0,8 per cento in Italia.

Per tornare ad avere una nuova caduta del Pil, bisogna fare un lungo salto e giungere al 2007: anno che segnò il crack della Lehman Brothers ed il contagio in Europa della crisi americana. In Italia, a causa delle debolezze croniche della sua economia, le avvisaglie si erano manifestate fin dal 2008, quando il Pil si era ridotto dell’1 per cento, sebbene nell’Eurozona – divenuta tale dopo la nascita dell’euro – vi fosse ancora vita. Il Pil, infatti, era cresciuto: di poco, ma aveva messo a segno un più 0,4 per cento. L’ultimo vagito prima della crisi.

L’anno successivo, infatti, la caduta del Pil dell’Eurozona sarà del 4,5 per cento; in Italia del 5,3. L’inizio di quella sorta di tragico destino che vedrà il Bel Paese sprofondare nelle classifiche internazionali, ponendosi quasi sempre nelle ultime posizioni. Solo due anni dopo, nel 2011, infatti, la triste verifica. A seguito del rischio di contagio da parte della Grecia, ecco il sorgere di quel nuovo mostro che passerà alla storia con il nome di “crisi dei debiti sovrani”.

Non più crisi americana che sbarca nel vecchio continente, ma DOC, come se si trattasse di un buon vino delle nostre terre. Anche in questo caso l’Italia fece da apripista: nel 2012 il Pil scese del 3 per cento, l’anno successivo dell’1,8, in quello ancora dopo fu crescita piatta: zero assoluto. I valori dell’Eurozona furono invece diversi: meno 0,9 nel 2012 e meno 0,3 nel 2013, ma più 1,4 nel 2014.

Fu allora che gli statistici percepirono la stranezza, ma soprattuto, la novità del fenomeno. Non era mai accaduto, in passato, che non si recuperasse il terreno perduto. Ed invece a partire dal 2007, questa diverrà la regola. Allora il Pil italiano, in termini reali (prezzi 2015), era stato pari a 1.795 miliardi di euro. Il valore più alto di tutti i tempi. Ma subito dopo, anno dopo anno, una rovinosa caduta. Che nel 2014 aveva raggiunto l’acne dell’8,5 per cento, per poi ridursi progressivamente. Nel 2019 il ritardo era ancora pari al 3,8 per cento. Poi lo schianto della pandemia, ultimo shock esogeno, proveniente dalla lontana Cina, che faceva ulteriormente precipitare la situazione.

In quell’anno, nel 2020, la caduta, per effetto del diffondersi del virus ed il conseguente gelo delle principali attività economiche, sarà pari all’8,9 per cento, annullando quei pochi progressi che si erano visti negli anni precedenti. E così, alla fine dell’anno la distanza rispetto al 2007 sarà ben più ampia, raggiungendo un valore pari al 12,4 per cento. Era come se i due terzi del reddito lordo della Lombardia, all’improvviso, fossero stati spazzati via. Da allora abbiamo recuperato circa la metà di quello che avevamo perduto. Bene, ma la strada è ancora lunga. È bene saperlo.

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