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NGEU

Che cosa non ci dicono sul Recovery Fund

Recovery Fund: fatti, numeri e tesi. L'approfondimento di Giuseppe Liturri parte dalla lettura del Corriere della Sera...

Siamo reduci da un micidiale uno-due sferrato dalla firma del Corriere della Sera, Federico Fubini, tra ieri ed oggi a proposito di Recovery Fund, Mes e rapporti con l’Europa.

Procediamo punto per punto, partendo dall’editoriale di sabato.

Sergio Mattarella ha mandato ieri al Forum Ambrosetti di Cernobbio un messaggio carico di significato. «La crisi obbliga a fare un ricorso massiccio al debito e non dobbiamo compromettere con scelte errate il futuro delle nuove generazioni», ha detto il presidente della Repubblica. Esse «guarderanno come sono state amministrate le risorse. In caso di inattività o scarsa azione, si chiederanno perché generazioni che hanno avuto condizioni così propizie non siano riuscite a realizzare infrastrutture essenziali e riforme strutturali, necessarie all’efficienza del sistema sociale ed economico, accrescendo solo la massa del debito». Non si poteva essere più chiari.

Qui il rilievo non è tanto a Fubini, quanto al Presidente Mattarella. Spiace rilevare che il Presidente, rappresentante dell’unità nazionale, dia per scontato che le scelte “giuste” siano quelle definite dall’accordo politico sancito durante il Consiglio Europeo del 21 luglio. Cioè focalizzazione su transizione ambientale, digitale e innovazione, rafforzamento del potenziale di crescita oltre al rispetto delle finora nefaste “raccomandazioni Paese”. Un perimetro da un lato potenzialmente ampio e, dall’altro lato, connotato da un’elevata discrezionalità. Sarà la Commissione arbitro insindacabile dell’ammissibilità dei piani nazionali e, per fare questo, si prenderà 8 settimane dal momento dell’invio formale dei piani. E se le priorità del Paese fossero altre? Se volessimo ridurre il cuneo fiscale? Se volessimo ricostruire le aree del Centro Italia, tuttora sotto le macerie a diversi anni dal terremoto? Se volessimo prenderci cura del dissesto idrogeologico? Se volessimo investire nel rafforzamento del nostro sistema di istruzione, investendo sulla retribuzione e qualificazione degli insegnanti e delle strutture scolastiche? Nessuno è sfiorato dal dubbio, nemmeno il Presidente, che quanto “necessario all’efficienza del sistema sociale ed economico” debba essere deciso da noi e non da Bruxelles, considerate le specificità del nostro Paese?

 È appena il caso di ricordare che l’Italia nei prossimi anni ha l’opportunità di spendere oltre 300 miliardi di euro messi a disposizione dalla Ue. Oltre duecento arriveranno dal Recovery Fund, 28 dal fondo Sure per il sostegno ai lavoratori, 36 per la spesa sanitaria dal Meccanismo europeo di stabilità (se li vogliamo) e poi ci saranno i fondi europei tradizionali, sui quali dal 2021 l’Italia riceverà più di quanto sia chiamata a contribuire. Questo è anche un risultato del governo e della sua ritrovata credibilità in Europa: sarebbe stato impossibile se il Paese fosse stato retto dalla coalizione euroscettica al potere fino a 13 mesi fa.

Qui Fubini compie due semplificazioni eccessive:

  • i 300 miliardi sono la somma di prestiti (per la gran parte) e sussidi (meno di 1/3). Sommarli è quantomeno fuorviante.
  • Affermare che “i fondi europei tradizionali”, quindi il bilancio 2021-2027 da 1.074 miliardi, ci vedranno beneficiari netti è quantomeno azzardato. Siamo contribuenti netti dal 2000 per una somma complessiva di circa 102 miliardi e, nel triennio 2017-2019, siamo stati contribuenti netti mediamente per circa 7 miliardi annui (Dati Ragioneria Generale dello Stato, qui da pagina 123). Come si fa a immaginare un simile rivoluzionario ribaltamento di segno che, a nostro parere, potrebbe solo peggiorare, considerata l’uscita del Regno Unito e l’aumento degli sconti a favore di alcuni Paesi (Austria, Olanda, Svezia, Danimarca). Attendiamo fiduciosi.

 Un terzo dei fondi saranno trasferimenti di bilancio, il resto prestiti a condizioni di favore e il totale vale il 20% del Prodotto interno lordo del 2020. Per dare un’idea, il Piano Marshall fra il 1948 e 1952 valse nel complesso l’11,5% del Pil italiano dell’epoca e cambiò il Paese.

Si mischiano mele con pere. L’effetto macroeconomico di prestiti e sussidi è evidentemente diverso. Ma l’aspetto più fuorviante è il paragone tra Recovery Fund e Piano Marshall. Il primo prevede comunque rimborsi, sia per i prestiti (per definizione), che per i sussidi, attraverso maggiori tasse e contributi a partire dal 2021. Qualcuno ricorda di rimborsi per il Piano Marshall, che in ogni caso, fu composto prevalentemente da veri e propri contributi a fondo perduto? Il paragone tra Recovery Fund e Piano Marshall è totalmente fuori luogo, come ci ricorda un ben documentato intervento sul sito Politico.EU, sicuramente non tacciabile di antieuropeismo.

Se questa è la lezione del passato, non resta che chiedersi se ce la ricordiamo. Ma rispondere oggi è impossibile. Sono troppi gli aspetti che restano ancora da chiarire, quelli sui quali non sono state date spiegazioni. Quasi niente è dato sapere dei progetti e delle priorità, al di là dei titoli. Si sa solo che al ministro Enzo Amendola è stato chiesto di sollecitare piani dai ministeri e ne sono arrivati più di seicento: quasi tutti vecchi, alcuni dei quali già finanziati con fondi nazionali. Non sarà facile dar loro coerenza. Non sarebbe stato meglio partire indicando dal centro poche direttrici precise magari già in giugno o in luglio, quando l’accordo europeo era già all’orizzonte? In Spagna per esempio i lavori del Recovery Plan sono partiti con una chiamata del governo a tutte le grandi imprese — private e pubbliche — per chiedere loro quali potrebbero essere i progetti digitali di maggiore impatto per la crescita.

Invece le direttrici ci sono e sono quelle in precedenza elencate e ben definite nell’accordo del 21 luglio. Non si è sfiorati dal dubbio che, quando si chiedono piani ai ministeri emergano le vere esigenze del Paese, magari non inscrivibili nel perimetro disegnato da Bruxelles?

Né è molto chiaro che forma prenderanno le riforme che si devono accompagnare al Recovery Plan italiano. Secondo le condizioni indicate nell’accordo di luglio a Bruxelles, esse devono riguardare la giustizia civile e l’efficienza dell’amministrazione. Dovrebbero entrare nel progetto da inviare alla Commissione europea tra poco più di un mese, ma di questi argomenti nel mondo politico e nel Paese quasi non si parla. La legge delega sulla riforma della giustizia civile giace in Parlamento da tempo, per esempio.

Che cosa non è chiaro di quanto convenuto dal Consiglio in proposito (“nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese”)? Tutte le raccomandazioni, non solo quello relative a giustizia civile ed efficienza della PA. In nessun documento si parla solo della giustizia civile. E, a guardare bene quelle raccomandazioni, ne emerge il potenziale potenzialmente recessivo, come abbiamo già sperimentato sulla nostra pelle a partire dal 2012.

Passando da domenica a lunedì, il copione non cambia. Troppe cose che non quadrano. Esaminiamole.

Non sarà necessario per l’Italia presentare entro metà ottobre un piano già compiuto sui 209 miliardi di Next Generation EU, anche perché troppi dettagli restano da precisare a Bruxelles. Il più importante è apparentemente di natura tecnica, ma può avere profonde implicazioni finanziarie e politiche. La parte prevalente di «NextGenEU», il Recovery Fund, non sarà infatti in trasferimenti diretti di bilancio ma in prestiti. A tassi quasi zero, rimborsabili in trent’anni e oltre, ma pur sempre prestiti. Per l’Italia questa parte vale circa 125 miliardi di euro nei prossimi anni.

Nessuno ha chiesto all’Italia, né ad altri Paesi, di presentare “piani compiuti” ad ottobre. Si è sempre parlato di bozze per la discussione, anche perché i regolamenti che disciplineranno il funzionamento del Next Generation EU non saranno pronti prima di dicembre. L’unica data certa per l’invio dei piani formali è aprile 2021, così come ribadito anche da Gentiloni. Da lì, ci vorranno 8 settimane alla Commissione per valutare e trasmettere al Consiglio affinché li approvi entro 4 settimane.

Il governo italiano ha dunque rivolto una domanda alla Commissione europea di recente: come vanno trattati sul piano contabile quei prestiti? Se andassero semplicemente aggiunti al calcolo del debito pubblico — uniti ai 28 miliardi del fondo europeo Sure per il lavoro — si arriva a 152 miliardi di oneri in più. È il 9% del Prodotto interno lordo, che può diventare 11% nel caso si sommi anche il prestito sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Il governo vuole dunque sapere se quelle somme vanno iscritte nella normale contabilità del debito pubblico — facendolo salire molto di più, quando già quest’anno sarà attorno al 160% del Pil — o possono essere trattate a parte. I documenti italiani di finanza pubblica oggi per esempio segnalano in un asterisco a piè di pagina che circa l’uno per cento del debito è dovuto ai finanziamenti italiani al Mes, per il salvataggio della Grecia e di altri Paesi un decennio fa. In questo caso si tratterebbe di indicare chiaramente agli investitori, in teoria, che una parte dell’enorme debito è di natura diversa e in sé più sostenibile rispetto a quello contratto sul mercato. Ma questa resta una partita aperta per le prossime settimane, fra le più delicate.

Fubini centra un tema rilevante, ma termina con conclusioni apodittiche. Finalmente punta l’attenzione sulla natura di debito di questo denaro che arriverà da Bruxelles. E questa è senz’altro una nota di merito, nell’imperante panorama di racconti che descrivono soldi che cadono dal cielo o crescono come gli zecchini nel campo dei miracoli. Ma, nel fare la differenza, si dà la zappa sui piedi affermando che quel debito “è in sé più sostenibile”. E chi l’ha detto? Un debito è sostenibile se esistono i flussi in entrata per rimborsare capitale ed interessi. Parlando solo degli interessi: basta solo qualche (ipotetico) centinaio di milioni in meno all’anno di interessi rispetto ad un BTP trentennale, per affermare che il prestito della UE è più sostenibile? Parlando del capitale: è vero, il prestito UE è a lunga scadenza e quindi non richiede rifinanziamenti intermedi, con il rischio di trovarsi in una crisi di liquidità. Si dimentica che rinnoviamo senza problemi centinaia di miliardi di debito ogni anno. Si dimentica che il debito emesso e rinnovato sine die dalla Banca Centrale, come sta accadendo dal 2015 agli acquisti effettuati con il Quantitative Easing, non ha più rischio di liquidità, e parliamo di poco meno di 500 miliardi. Si dimentica che, paradossalmente, il rischio liquidità si porrà con i prestiti europei che non potranno essere rinnovati. Estremizzando il discorso, anche un Bot a 12 mesi (a maggior ragione un Btp a 10 o 30 anni), riacquistato in perpetuo dalla Bce è più sostenibile di un prestito UE, che invece avrà rate di rimborso predefinite a partire dal 2028.

In attesa che si chiarisca questo punto, il governo sta muovendo passi in avanti nel definire le linee-guida del suo Recovery plan. Sono state già sentite le principali grandi imprese pubbliche e private su quali siano i potenziali progetti con effetto moltiplicatore per la crescita. Gli incontri sono rimasti riservati soprattutto per evitare ripercussioni sui listini, sempre possibili vista la dimensione delle somme in gioco. Ma ora i primi documenti sono pronti in forma di bozza. Per mercoledì è fissata la riunione del Ciae, Comitato interministeriale Affari europei a cui partecipano il premier e tutti i principali ministri, che dovrebbe approvare e mandare in Parlamento il primo piano d’indirizzo. Salvo modifiche all’ultimo, il testo dovrebbe indicare sei grandi aree di investimento e altrettanti capitoli di riforme. Le prime riguardano la digitalizzazione, l’innovazione, le infrastrutture, la riduzioni delle emissioni inquinanti, l’istruzione e la ricerca. Le seconde — i grandi temi di riforma — dovrebbero includere la Pubblica amministrazione, l’efficienza del sistema giudiziario, il mercato del lavoro, la ricerca, la formazione e il Fisco.

Ben vengano investimenti in tutte le aree elencate. Viene solo da chiedersi quale sia la convenienza a vederseli finanziati dalla UE anziché dai mercati. Tremano invece i polsi a leggere l’elenco delle riforme. Conosciamo bene gli effetti economici delle “riforme” della Commissione: deflazione salariale e crescita asfittica. Non sono bastati 8 anni per constatarne gli effetti? Sono esattamente le stesse prescrizioni che fanno della UE l’area economica avanzata a più bassa crescita negli ultimi 20 anni, per non parlare dei danni inferti all’Italia. Davvero si vuole proseguire con le stesse ricette?

Le due direttrici, investimenti e riforme, dovrebbero essere legate in parte dagli stessi progetti. Per esempio uno dei punti di forza nelle proposte per modernizzare la macchina dello Stato è la migrazione su cloud — la «nuvola» digitale con rapidissima capacità di calcolo — dei dati delle 23 mila amministrazioni italiane oggi dispersi in undicimila «data center» che molto spesso sono vecchi, inefficienti e incapaci di comunicare fra loro. La transizione al cloud della memoria informatica dello Stato riduce i costi, potenzialmente aumenta la produttività degli uffici, ma presuppone investimenti di vari miliardi che possono essere coperti con il Recovery Fund.

Tutto qua? Abbiamo bisogno dei prestiti UE per mettere in rete delle banche dati? Si stenta a rimanere seri.

Anche sul fronte di quelle che ieri al Forum Ambrosetti il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha definito «infrastrutture sociali», il governo pensa a sinergie fra investimenti e riforme. I miliardi di NextGen EU dovrebbero aiutare e finanziare il passaggio alla scuola a tempo pieno in tutto il Mezzogiorno (oggi riguarda solo un quarto dei bambini); dovrebbero alzare la copertura degli asili nidi alla media europea (circa 33 posti ogni cento neonati fino a 36 mesi), per dare più opportunità di lavoro alle madri; e dovrebbero rafforzare in competenze e tecnologie centri per l’impiego. Sul piano dell’ambiente, un progetto centrale riguarda lo stoccaggio e il trasporto dell’idrogeno anche verso il resto d’Europa e dovrebbe coinvolgere sia Snam che Enel.

Esattamente l’elenco delle spese che ci è stato chiesto di tagliare in 25 anni di avanzi primari di bilancio pubblico. Abbiamo trascurato gli investimenti in quelle aree proprio per obbedire a quanto richiesto da Bruxelles, salvo sentirci dire recentemente da Gentiloni che il Patto di Stabilità è stato applicato con troppa fretta nel 2012 ed è stato un errore.

Dopo mercoledì, le prossime tappe arrivano a fine settembre con la nota di aggiornamento ai conti e a metà ottobre con il primo invio di linee-guida a Bruxelles. Ma la presentazione dei progetti dettagliati probabilmente non arriverà prima di gennaio. Slittano dunque anche i tempi dei primi esborsi.

Il Commissario Paolo Gentiloni in audizione in Parlamento il 1 settembre aveva già detto tutto sul punto specifico dei tempi. E anticipiamo una probabile novità: l’anticipo del 10% riguarderà solo i sussidi (81 miliardi circa) e non anche i prestiti (circa 125 miliardi). Quindi non prima di giugno 2021 potrebbero arrivare solo 8 e non 20 miliardi.

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