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crescita economica

Perché in Italia la crescita ristagna

Tutti i veri motivi della bassa crescita dell'economia italiana. L'analisi di Polillo.

Daniele Manca, dalle pagine de “Il Corriere della sera” ha descritto con cura le luci e le ombre che caratterizzano l’economia italiana. Da un lato l’orgoglio di Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia. Quel “frutto del lavoro serio e silenzioso che stiamo portando avanti dall’inizio del governo”: come ha ricordato in una recente intervista che ancora oggi campeggia sulle pagine del sito ministeriale. Vale a dire, quel mettersi “in coda per acquistare titoli di Stato italiani. – secondo l’editoriale citato – Le agenzie che misurano l’affidabilità nel restituire il debito” modificando “il loro giudizio e sono positive sulla fase del Paese. Il numero di occupati” che “non è mai stato così alto. Il dialogo” che “è avviato tra imprese ed esecutivo, come dimostrato martedì all’assemblea di Confindustria. Un ”governo” che “appare stabile e dalla leadership chiara.”

Quasi troppo bello, per sembrare vero. Ed infatti il lato oscuro della forza è rappresentato da “quella crescita che langue attorno allo 0,6 per cento, mentre i Paesi dell’euro fanno in media l’1,2 per cento”. Problema tutt’altro che contingente nella lunga storia dell’economia italiana. Dalla nascita dell’euro, il distacco tra l’Italia e l’Eurozona è progressivamente aumentato, con una perdita di potenza per l’economia nazionale che nel 2024 ha toccato 23,3 punti di Pil: una crescita complessiva pari al 32,6% per l’Eurozona; del 9,3% per il Bel Paese. I guai peggiori si sono avuti a partire dal 2009: segno evidente che il trauma del 2011, determinato dalle politiche di austerity del Governo Monti, è stato più profondo di quanto, a prima vista si poteva immaginare. Andrà così anche per gli anni futuri? Stando alle previsioni del Fondo monetario sembrerebbe di sì.

Se questo è il quadro, non ha molto senso prendersela con il Governo di turno. Da questo punto di vista, nessuno è senza peccato. Meglio allora cercare di individuare le ragioni di fondo di un malessere permanente.  Il primo è di natura demografico. L’Italia è da troppo tempo un Paese per vecchi, considerato il decremento nella dinamica della popolazione residente (al netto dell’immigrazione). Dal 2015 al 2023 la perdita media annua è stata pari all’1,5%. Peggio di noi, comunque, la Grecia, la Lettonia, l’Ungheria e la Polonia. Una popolazione che invecchia è portata a consumare meno. In genere cerca di accontentarsi di quello che ha e difendere il poco o il tanto accumulato nel corso di un’intera vita. Modificare questo tran tran è una sfida quasi impossibile.

Ed ecco allora, come dice Manca, perché quel “motore non gira”. Perché quei “consumi interni, quelli che nel caso dell’America hanno fatto sempre da spinta allo sviluppo” in Italia sono ai minimi termini. Essendo stati nelle “società orientate all’export come quella italiana e in generale europea,” sempre sottovalutati. Se non in qualche caso osteggiati.” Il teorema dominante al tempo di Angela Merkel, oggi finalmente messo in discussione dal nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz. Il tema, tuttavia, va ulteriormente approfondito. Aumento della domanda interna, infatti: fuori discussione. Ma della domanda pubblica o privata? Sotto forma di semplici consumi o di investimenti?

Nel caso di quest’ultima distinzione logica vuole che a fare da traino agli investimenti sia una domanda in grado di assicurare, almeno in prospettiva, la remunerazione richiesta per le risorse appena investite. In una realtà stazionaria vi possono essere investimenti rivolti a razionalizzare l’apparato produttivo ed abbattere i costi unitari. Ma se non interviene la leva della domanda (interna od estera) i risultati non possono che risultare alquanto modesti. Nella realtà italiana, a partire dal 2011 il massimo contributo allo sviluppo è venuto dalla domanda estera che ha trainato l’intera economia. Come è dimostrato dall’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ed i rimanenti valori ad esso collegati.

Dalla nascita dell’euro e fino al 2010, l’eccesso di domanda interna aveva determinato un progressivo peggioramento dei conti con l’estero, fino a raggiungere un deficit pari al 3,2% del Pil. Dopo la cura da cavallo del Governo Monti, invece, un miglioramento sempre più consistente. Con un saldo positivo che, nel 2020 aveva raggiunto il 3,8% del Pil. Dinamica che aveva trascinato con sé tutti gli altri valori. Nel 2014 la posizione patrimoniale netta dell’Italia nei confronti dell’estero era risultata debitorio per un importo pari al 25,2% del Pil. Per rovesciarsi progressivamente nel suo contrario: prima annullando il passivo, quindi trasformandosi in un attivo che, alla fine dello scorso anno aveva toccato il 15,3% del Pil. Per un totale, come certificato da Banca d’Italia, di 334,9 miliardi di euro.

Un successo che inorgoglisce, per la resilienza dimostrata dalla società italiana. Ma che anche impensierisce. Quelle somme stanno, infatti, ad indicare l’incapacità di sistema nel saper utilizzare tutte le risorse a propria disposizione. Da anni, ormai, l’Italia vive al di sotto delle proprie possibilità, mettendo a disposizione dell’estero ciò che non riesce ad utilizzare al proprio interno. Ecco, a cosa porta, l’eccesso di esportazioni sulle importazioni. Una sorta di piccola Germania, ma con un reddito medio pro-capite che  in Italia  è di un terzo inferiore a quello tedesco. Per chiudere quel gap dovrebbe essere la domanda interna ad aumentare, ma come? Facendo crescere, forse, la domanda pubblica?

Le ultime previsioni della Commissione europea indicano per l’Italia una spesa complessiva  superiore al 50% del Pil. Maggiore di circa 1 punto rispetto alla media dell’Eurozona e superata solo da Francia, Finlandia, Austria e Belgio. Paesi che presentano tuttavia un rapporto debito/Pil molto meno preoccupante rispetto all’Italia. Alla luce di questi dati, ipotizzare un suo aumento, risulta essere quanto mai problematico. Ed allora non resta che puntare sulla domanda dei privati. Che, a sua volta, può aumentare solo se termina il gelo che ha accompagnato la dinamica dei salari italiani.  A  loro volta di gran lunga inferiori alla media europea.

Finora il ristagno salariale è stato la risultante di una cattiva pratica sindacale: tutta concentrata su una contrattazione centralizzata, quando invece  era necessario far leva sul massimo del decentramento possibile, dal momento che la produttività non è uniforme né a livello settoriale, né aziendale. Ma nell’universo produttivo convivono situazioni diametralmente opposte contro le quali non è possibile utilizzare la clava dell’uniformità. La dimostrazione di quest’assunto la si ritrova proprio in quei 334,9 miliardi che non sono redistribuiti tra capitale e lavoro. Rimangono, invece, nel perimetro delle aziende con i maggiori margini di produttività, per essere poi dirottati verso l’estero, a causa della compressione della domanda interna.

Questo nuovo mondo è completamente estraneo alla tradizione del sindacalismo italiano, salvo lodevoli eccezioni. Si pensi solo alla battaglia per il salario minimo, cavallo di battaglia della sinistra italiana. Ineccepibile da un punto di vista etico. Ma del tutto inutile da quello pratico. Il salario deve aumentare dove sono presenti margini, non nei settori che vivono a ridosso della pura sussistenza, per cui un semplice aumento dei costi rischia di metterli fuori mercato. Si dirà che operando in tal modo si rischia di aumentare le disuguaglianze. Di rompere la mitica unità della classe operaia. Preoccupazioni legittime nel ‘900, l’epoca dei telefoni a gettone. Ma oggi anche in CGIL utilizzano gli smartphone.

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