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Cassa Integrazione

Cassa integrazione per i dipendenti statali?

L’assenza della Cassa integrazione lascia la PA a metà del guado. L'opinione di Luigi Oliveri tratta da Phastidio.net

Egregio Titolare,

il nuovo decreto che stringe ulteriormente le maglie nella lotta contro il coronavirus mostra per l’ennesima volta che per il lavoro pubblico si va semplicemente a vista.

Purtroppo, nell’ordinamento manca la disciplina della cassa integrazione ordinaria; strumento che nel privato, pena sacrifici chiari, consente alle aziende che per fatti come quelli di questi giorni non possono produrre, di sospendere il rapporto di lavoro con i propri dipendenti.

L’assenza di questo strumento lascia la PA a metà del guado. Da un lato, i vari decreti vorrebbero andare verso la sospensione del rapporto anche nel lavoro pubblico, dall’altro due paletti inibiscono una scelta chiara: la circostanza che determinate attività del pubblico non possono chiudere (si pensi alla sanità, ovviamente); nonché il timore che misure di estensione della sospensione del rapporto di lavoro possano costituire responsabilità erariale, scatenando la giurisdizione della Corte dei conti.

Il primo problema deriva dalla sempiterna genericità delle norme. Guardiamo alla regola introdotta nel decreto approvato l’11 marzo dal Presidente del consiglio:

Fermo restando quanto disposto dall’articolo 1, comma 1, lettera e), del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020 e fatte salve le attività strettamente funzionali alla gestione dell’emergenza, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, assicurano lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio personale dipendente, anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui agli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81 e individuano le attività indifferibili da rendere in presenza.
Il trionfo dell’ambiguità e del detto e non detto. Affermare che “in via ordinaria” le prestazioni lavorative si svolgono in lavoro agile non significa nulla. Come del tutto astratto è il concetto delle attività “indifferibili da rendere in presenza”.

Se l’ora è buia e le misure debbono essere drastiche, occorreva disporre la chiusura totale degli uffici, il rinvio di ogni termine, lo svolgimento di funzioni gestibili in lavoro agile per quelle mansioni (e strumentazioni hardware – software compatibili), l’individuazione specifica di funzioni non compatibili (forze di polizia anche locale, ovviamente servizi della sanità, servizi cimiteriali, servizi sociali di base) e la previsione che la restante parte dei dipendenti stesse a casa, puramente e semplicemente.

Allo scopo, il d.l. 9/2020 contiene una norma che avrebbe avuto lo scopo di consentire la scelta drastica di lasciare a casa i dipendenti non altrimenti impiegabili. Si tratta dell’articolo 19, comma 3:

I periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da Covid-19, adottati ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, costituiscono servizio prestato a tutti gli effetti di legge. L’Amministrazione non corrisponde l’indennità sostitutiva di mensa, ove prevista
Ma anche questa norma è assolutamente ambigua e non risulta chiaro se un decreto come quello dell’11 marzo sia un corretto presupposto per applicarla.

Lo spauracchio della Corte dei conti fa il resto. Una normazione d’emergenza avrebbe dovuto, e si farebbe ancora in tempo, disporre una moratoria totale ed assoluta da responsabilità contabili.

Il problema è, ovviamente, il costo. Non avendo mai istituito una Cig per il lavoro pubblico, non esiste alcun fondo al quale attingere. Pagare lavoratori che non lavorano, significa spendere denaro pubblico non giustificabile.

Da qui, dunque, l’ambiguità. Che indurrà tanti enti ad approvare a manetta progetti di lavoro agile “un tanto al chilo”, solo formali e senza reali contenuti, insomma “farlocchi”. L’ipocrisia avrà vinto.

È da auspicare, però, che si tratti dell’ultima battaglia vinta da ipocrisia, ambiguità, pressappochismo, “poraccismo”, iperburocratizzazione e iper responsabilizzazione amministrativa e che domani, quando si sarà usciti dall’emergenza, tante norme e modalità organizzative e regole sulla responsabilità vengano riviste. Molto profondamente.

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Forse serve davvero una profonda revisione della natura del rapporto di lavoro pubblico, che permetta “in tempo di pace” di gestire situazioni quali gli esuberi, temporanei o strutturali. In questa situazione non avverrà, e si proseguirà a mettere toppe e fingere. (MS)

 

Articolo pubblicato su phastidio.net

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