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Franchising Grande Distribuzione

Carrefour e non solo, cosa succede ai vertici della Gdo in Italia

Il post di Mario Sassi Il CEO di Carrefour Italia Gerard Lavinay lascia il timone a Cristophe Rabatel proveniente dalla Polonia dove ha ottenuto le migliori  performance per il Gruppo e subito si scatena in rete un confronto sulla scelta di affidare la subsidiary della multinazionale francese in crisi di risultati ad un altro francese. Premesso…

Il post di Mario Sassi

Il CEO di Carrefour Italia Gerard Lavinay lascia il timone a Cristophe Rabatel proveniente dalla Polonia dove ha ottenuto le migliori  performance per il Gruppo e subito si scatena in rete un confronto sulla scelta di affidare la subsidiary della multinazionale francese in crisi di risultati ad un altro francese.

Premesso che Carrefour può scegliere chi le pare resta interessante allargare il discorso alle ragioni che impediscono al management italiano (middle e top) di crescere e affermarsi ai più alti livelli della Grande Distribuzione nazionale e continentale.

Serve a poco parlare di scelte scontate quanto sbagliate o scandalizzarsi perché ad un francese che non ha raggiunto i risultati attesi dalla casa madre segue un altro francese. Né fare inutili parallelismi con Auchan che resta una realtà completamente diversa che in più ha deciso, a differenza di Carrefour,  di lasciare il nostro Paese.

Ribadisco che in tutta Europa (quindi Italia compresa) manager di altissimo livello in grado di occupare quella posizione in questa fase, ritenuti idonei  per il  CEO Alexandre Bompard e pronti a rischiare la propria carriera, non ne vedo.

In  secondo luogo mi continua a stupire chi confonde la cultura di una subsidiary company sul piano mangeriale e organizzativo facente parte di una multinazionale presente in 30 Paesi con 490.000 dipendenti e un fatturato di circa 90 miliardi con quello di una pur importante realtà locale che vive tutt’altre problematiche. Impossibile fare paragoni. Sono mondi diversi, culture diverse e modalità decisionali assolutamente diverse. Nel bene e nel male.

Pochi  sembrano interessati al tipo di CV ricercato da un multinazionale del settore  e alla complessità di un’operazione di riallineamento che, se non dovesse realizzarsi nei tempi e nei modi previsti, porterebbe ad un disimpegno o ad una cessione di un’altra importantissima azienda della GDO con pesanti conseguenze occupazionali.

È vero che in Italia le migliori aziende italiane della GDO sono più performanti. E questo è dovuto indubbiamente alla catena decisionale corta, ad una capacità di simbiosi con il territorio diversa, alla presenza di un tessuto di grandi e (soprattutto) piccoli imprenditori che hanno un controllo “maniacale” del loro business  con una propensione ad espandersi dove è ancora possibile e alla capacità di un middle management locale di tenere alta la pressione sui singoli punti di vendita. Così come è vero che ormai da tempo  le multinazionali non essendo in grado di mettere in discussione il loro modello organizzativo e manageriale preferiscono abbandonare la gestione diretta puntando sul  franchising soprattutto laddove la competizione è più esasperata. Inoltre non serve sottolineare che spesso si dimentica che una parte della crisi di questa realtà transalpina si è ulteriormente accentuata proprio quando a dirigerla c’era un manager italiano.

Non è quindi un problema di nazionalità del CEO ma di iterazione con il management locale, di leadership riconosciuta o meno, di organizzazione, di sensibilità territoriale e di sintonia con il consumatore. E di volontà o meno della casa madre  di concedere il tempo necessario ad invertire la rotta.

La Grande Distribuzione italiana così come la conosciamo oggi è un prodotto della cultura imprenditoriale che l’ha costruita nel secolo scorso. Piccoli o grandi che fossero quegli eccezionali imprenditori hanno fatto a modo loro i manager delle loro imprese governandole e portandole al più alto livello possibile di business del 900. Quasi tutti, o non ci sono più, o sono ormai sul viale del tramonto. Nessuno di loro si è mai posto il problema dell’internazionalizzazione della propria azienda.

Nel frattempo è scesa in pista una “nuova” generazione di imprenditori e di manager che, salvo pochi ma importanti  casi,  devono ancora dimostrare di essere in grado di migliorare i risultati di chi li ha preceduti  e di guidare il cambiamento delle loro realtà. Fatturati, costi e margini (molto più che la cultura dell’innovazione) continuano a rappresentare l’ossessione della maggioranza delle insegne. La gara al ribasso innescata nel comparto e che ha prodotto ben quattro contratti nazionali più qualche decina di  contratti pirata è lì a dimostrarlo.

In tutta la GDO (mondo Coop compreso) si contano oggi circa 700 dirigenti (senza parlare dei quadri che in molte realtà li sostituiscono con altrettanta professionalità e impegno). Le società di selezione specializzate  confermano che, fuori dal comparto stesso, c’è scarsissima richiesta di manager provenienti dalla GDO. Soprattutto ad alti livelli. I top manager italiani provenienti da banche e GDO non hanno mercato esterno al settore. E questo dovrebbe far riflettere. I manager si  muovono essenzialmente  all’interno del comparto.

Le ore di formazione manageriale restano le più basse dell’intero terziario di mercato. Addirittura insignificanti rispetto al resto dell’Europa. I top manager italiani con un CV pesante e interno al comparto corroborato da progetti gestiti e risultati personali ottenuti si contano sulle dita di una mano.

Coop a parte (ma anche in quel contesto ci sono segnali di cambiamento) quasi tutti i CEO delle insegne più importanti hanno comunque un passato nell’industria, nella consulenza o un percorso internazionale alle spalle.

A fare da contraltare, come dicevo, esiste fortunatamente un middle management di grande qualità. Quindi c’è una strettoia invisibile che preclude la crescita di ottime seconde linee ai livelli più alti. Altro che scelte sbagliate delle multinazionali! Qui sta il punto.

Certo in Italia le aziende radicate nei territori indipendentemente dalle dimensioni restano più performanti rispetto alle multinazionali. Franchising e piccoli imprenditori locali hanno risultati invidiabili. Ma non consentono quel salto di qualità  alle loro imprese né i CV richiesti ai manager delle multinazionali. È il cane che si morde la coda.

Non potendosi misurare con complessità crescenti in contesti internazionali è difficile per un manager anche bravo crescere oltre un certo livello. E quindi le multinazionali cercano altrove. E, purtroppo,  anziché individuare cause e rimedi per invertire la rotta sul piano della crescita della cultura manageriale e delle nostre imprese, ci si accontenta di dar sfogo ad una retorica  inconcludente  che non costruisce le condizioni per cambiare la situazione.

(Estratto di un articolo tratto dal blog di Sassi; qui la versione integrale)

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