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Governo Gialloverde

Carige, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps. Cosa succede alle banche (mentre il governo apre l’ombrello su Carige)

Il commento di Gianfranco Polillo

Dalla nascita del governo Conte la Borsa italiana, nel suo indice generale, ha perso più del 25 per cento. Diversi i fattori che vi hanno contribuito, specie di natura internazionale: dal rallentamento in atto in tutte le principali economie, alla guerra dei dazi intrapresa da Donald Trump. Fenomeni che non hanno interessato solo l’Italia, ma che, nei confronti delle altre economie, hanno avuto un impatto meno devastante.

COME VA LA BORSA ITALIANA

Più o meno nello stesso periodo la Borsa di Parigi ha perso circa il 15 per cento, quella tedesca un po’ di più a causa del peso che la componente esportazioni ha sull’economia del Paese. Tuttavia il maggior calo della Borsa italiana (circa 10 punti in più) è rilevante, specie se paragonato all’indice Eurostoxx, che rappresenta i principali gruppi europei. Nulla a che vedere tuttavia con l’andamento dei titoli del comparto bancario italiano che perdono circa il 40 per cento del loro valore. Al punto che la relativa capitalizzazione di borsa è, ormai, inferiore all’entità del patrimonio netto.

CHE COSA SUCCEDE A INTESA SANPAOLO E UNICREDIT

Le due principali banche italiane mostrano uno scarto sul patrimonio netto pari al 10 per cento per Intesa Sanpaolo e addirittura del 27,4 per cento per Unicredit. Cosa tutt’altro che normale. Se si considera che la capitalizzazione di borsa di Enel è, seppur di poco, superiore al patrimonio netto: 51,9 miliardi contro 51,7. Le banche italiane, quindi, perdono più degli altri gruppi italiani. E perdono maggiormente anche nei confronti dei propri concorrenti esteri. Bnp Paribas, tanto per fare un confronto, nello stesso intervallo di tempo ha lasciato sul terreno il 23 per cento della sua capitalizzazione, dando un forte dispiacere ai propri azionisti. Molto meno, tuttavia, del salasso toccato a quelli di Intesa, che perdono circa il 36 per cento e di Unicredit che piangono un meno 42 per cento.

IL CASO CARIGE E LE PAROLE DI DI MAIO

In un contesto generale che non induce all’ottimismo, la crisi italiana si nutre, quindi, di fattori specifici. Nell’ottobre del 2018, Luigi Di Maio aveva dichiarato in modo stentoreo: “Non torneremo indietro sulla questione del 2,4% per 7-8 banche in difficoltà”. La profezia si è realizzata solo a metà. Rispetto al 2,4 per cento è stato un “indietro tutta”. Mentre le difficoltà non di 7 o 8 istituti, ma dell’intero sistema del credito stanno emergendo con particolare evidenza. Il caso di Carige, costretta all’amministrazione controllata ed al commissariamento da parte della Bce, ne è la più recente dimostrazione. All’origine della crisi della banca ligure è una lunga storia. Da tempo in sofferenza, per una gestione tutt’altro che brillante, doveva essere ricapitalizzata. L’assemblea del 22 dicembre era stata convocata per deliberare un aumento di capitale da 400 milioni di euro. Ma il suo principale azionista di riferimento – Malacalza Investimenti – astenendosi ha mostrato tutta la sua contrarietà all’operazione.

I SUBBUGLI IN CASA DI BANCA CARIGE

Una dichiarazione di sfiducia nei confronti dell’amministratore delegato Fabio Innocenzi che lo stesso Vittorio Malacalza aveva scelto nel 2005, dopo aver investito nella banca 423 milioni di euro, andati più o meno in fumo. Da qui il ripensamento, dopo settimane di trattative in cui sembrava che la soluzione del puzzle fosse a portata di mano. E con il fallimento dell’operazione le dimissioni del consiglio d’amministrazione e quindi l’intervento della Bce, volta a congelare la situazione nella speranza della discesa in campo di un cavaliere bianco in grado di incorporare la struttura dell’istituto in un gruppo più forte. Fatti specifici, come si può osservare. Ma anche un più generale campanello d’allarme. L’operazione di consolidamento, dopo un lungo travaglio, era rischiosa fin dall’inizio. Ma a renderla impossibile ha contribuito la scarsa liquidità che oggi connota il sistema bancario, le cui obbligazioni, stante gli aumenti dello spread sui titoli di Stato, conducono una magra esistenza.

I NODI DEL SISTEMA BANCARIO E IL RUOLO DELLA BCE

Ed ecco allora il punto di saldatura con gli andamenti più generali di cui si è parlato in precedenza. Se il patrimonio netto complessivo delle maggiori banche italiane è più basso dei valori di capitalizzazione in borsa, non sono certo queste ultime che possono tentare operazioni di consolidamento. Si può sperare in qualche fondo o banca estera, con tutti i rischi del caso. Oppure puntare sul supporto attivo, com’è già avvenuto, della Bce. Ciò che fa più rumore è, tuttavia, la totale assenza di iniziativa da parte del Governo. Semplici dichiarazioni di attenzione, che lasciano il tempo che trovano. Per altro accompagnate da precedenti interventi che non hanno fatto ben sperare. Figlie di un’ostilità, quasi infantile, nei confronti del sistema bancario italiano (i poteri forti), che hanno contribuito, e non di poco, a spiegare il continuo collasso di borsa.

LE PAROLE DEL GOVERNO

Parole come quelle che si sono sentite a Gioia Tauro, da parte di Luigi Di Maio (“Il sistema bancario la deve pagare perché ha avuto un atteggiamento arrogante infischiandosene dei risparmiatori e dello Stato ed è stato protetto da ambienti politici sia in questa regione che a livello nazionale. Se vogliamo sostenere le imprese dovremo ridurre l’arroganza di certe organizzazioni, quelle illegali e anche di alcune legali”, Ansa del 18 luglio) mostrano quale sia il livello di consapevolezza che aleggia nelle stanze dell’esecutivo. Ieri sera, comunque, il consiglio dei ministri ha approvato una rete pubblica di salvataggio potenziale di Carige tra garanzie statali sui bond e piani eventuali di ricapitalizzazione precauzionale.

DOSSIER SPREAD E TITOLI DI STATO

In sofferenza per le perdite di capitale dovute a quei 300 miliardi di titoli di stato posseduti, a seguito dell’aumento degli spread, la maggior parte delle banche italiane ha tirato i remi in banca. Li conserverà nel proprio portafoglio, con il beneplacito della Bce, fino alla scadenza, per ottenere un rendimento che non peserà sui rispettivi bilanci. Essendo il rimborso alla pari. Il modo più semplice per non dare ulteriori dispiaceri ai propri azionisti. Ma non sarà un’operazione indolore. Trasformare un investimento di tesoreria in uno a più lunga scadenza, significa avere minore risorse a disposizione per finanziare l’intera economia. Con un vantaggio aggiuntivo per gli istituti di credito: quello di un maggior rendimento, derivante dal minor rischio, rispetto ai prestiti concessi ad imprese e famiglie, in un momento di crescente difficoltà economica. Ed ecco allora spuntare le corna del credit crunch: di quella stretta del credito destinata a fare ancora più male. Se fossimo all’interno di un giallo di Agatha Christie diremmo che la vendetta va servita come un piatto freddo. Ma qui siamo nel fantastico mondo dei 5 stelle.

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