Tra settembre 2022 e settembre 2023 gli episodi di greenwashing – ovvero di comunicazione ingannevole sui presunti impatti ambientali positivi di un’attività o di un investimento – da parte delle banche e delle società di servizi finanziari sono cresciuti del 70 per cento a livello globale. Nella maggior parte dei casi, questo greenwashing consiste in comunicazioni fuorvianti circa i rapporti con l’industria dei combustibili fossili. Le istituzioni finanziarie europee sono risultate quelle che più frequentemente adottano questa pratica malevola, essendo coinvolte in 106 casi di greenwashing sui 148 registrati nel periodo in questione.
DA 86 CASI A 148
Sono questi i risultati principali di un rapporto realizzato da RepRisk, una società che si occupa di valutare i fattori di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (ESG, in gergo) delle operazioni finanziarie. Tra settembre 2022 e settembre 2023 ha identificato 148 episodi di greenwashing nel settore delle banche e della finanza, contro gli 86 casi dei dodici mesi precedenti.
A COSA SERVE IL GREENWASHING
L’obiettivo del greenwashing è migliorare l’immagine di un’azienda o di un ente agli occhi dei clienti, fattisi più sensibili alla crisi climatica e ambientale.
Al momento, tuttavia, manca una definizione precisa di cosa costituisca greenwashing: RepRisk etichetta in questo modo le comunicazioni fuorvianti di una società, come ad esempio le esagerazioni sull’impatto ambientale positivo di una certa iniziativa. Le autorità di regolazione – incluse quelle dell’Unione europea – vorrebbero contrastare le pratiche di greenwashing in modo da accrescere la fiducia degli investitori e convogliare maggiori risorse verso progetti che davvero contribuiscono alla sostenibilità climatica.
L’ambiguità sugli obiettivi di azzeramento netto delle emissioni, le differenze di approccio e la mancanza di quadri regolatori di riferimento aumentano il rischio di greenwashing da parte delle aziende, spiegava uno studio di inizio 2023 – intitolato Corporate Climate Responsibility Monitor 2023 – realizzato da NewClimate Institute e Carbon Market Watch.
Le aziende veramente “leader nella lotta al cambiamento climatico”, si legge nel Monitor, “faticano a distinguersi da quelle che si assumono un impegno più ridotto. Solo una piccola minoranza di aziende, tra cui Maersk e Stellantis, si sta assumendo impegni potenzialmente credibili per quanto riguarda una decarbonizzazione significativa entro il 2030 e oltre tale scadenza. Tuttavia, queste aziende vengono messe sullo stesso piano di altre, tra cui American Airlines, Carrefour, Deutsche Post DHL, Fast Retailing (Uniqlo), Inditex (Zara), Nestlé, PepsiCo, Volkswagen e Walmart, che fanno dichiarazioni analoghe e menzionano le proprie certificazioni SBTi a difesa di strategie climatiche che in realtà mostrano un impegno molto limitato nella riduzione delle emissioni”.
LA FINANZA DOPO L’OIL & GAS
“Oltre il 50 per cento di questi episodi a rischio greenwashing sul clima hanno menzionato i combustibili fossili o hanno collegato un istituto finanziario a una società petrolifera e del gas”, scrive RepRisk. “Questi incidenti non sono isolati e le autorità di regolamentazione sono sempre più consapevoli della portata del problema”.
Né la Federazione bancaria europea né UK Finance, due organizzazioni che rappresentano l’industria bancaria europea, hanno risposto alle richieste di commento di Reuters.
Nel rapporto di RepRisk l’industria dei servizi bancari e finanziari è risultata seconda, per numero di episodi di greenwashing, solo al settore degli idrocarburi.
IL SOCIAL WASHING
Oltre al greenwashing, RepRisk ha analizzato anche il social washing delle aziende, ovvero quella tendenza a nascondere le criticità sociali delle loro attività – violazioni dei diritti umani, impatti sulle comunità locali – per salvaguardare la reputazione.
“La comunicazione fuorviante sui temi ambientali e sociali non solo impedisce il progresso verso gli obiettivi collettivi”, scrive RepRisk nel rapporto, “ma danneggia anche la fiducia dei consumatori e degli investitori”.