skip to Main Content

Affitti Brevi

Vi spiego le vere furbizie fiscali di Airbnb

Se lo Stato pone un’obbligazione a carico di Airbnb e quest’ultima decide di interpretare la legge e farsi scudo di improbabili norme europee, facendosi beffe di quel poco di sovranità fiscale di cui ancora disponiamo, il danno c’è già. Anzi, il danno è proprio quello, prima ancora dell’ammanco nelle casse dello Stato. L'analisi di Giuseppe Liturri

Sequestrati ad Airbnb, nota piattaforma online di locazioni brevi, 779 milioni da parte della Procura di Milano per evasione fiscale.

È questa la notizia rilanciata a tamburo battente da tutti i media nella giornata del 6 novembre.

Ma, ancora una volta, la fretta della cronaca mal si concilia con la precisione e la comprensione dei fatti che, ad un’approfondita analisi, portano a concludere che non si tratta di evasione. Ma di qualcosa di diverso e, sotto alcuni aspetti, finanche peggiore. Con la nostra magistratura amministrativa nel ruolo di protagonista, come vedremo. Ma procediamo con ordine a ricostruire i fatti in estrema sintesi.

GLI OBBLIGHI PER CHI INTERMEDIA GLI AFFITTI BREVI

Dal 2017 esiste una legge che dispone tre obblighi per chi intermedia locazioni brevi e gestisce pure il flusso dei pagamenti provenienti dal locatario.

Il primo è quello di raccogliere e trasmettere al Fisco le informazioni per identificare il debitore dell’imposta (il proprietario o chi dispone dell’immobile).

Il secondo è quello di trattenere dalle somme incassate una percentuale pari al 21% (a titolo di acconto o di imposta cedolare secca) e versarla all’Erario.

Il terzo – se si tratta di un soggetto non residente e privo di stabile organizzazione – di nominare un rappresentante fiscale in Italia per l’assolvimento dell’obbligo precedente.

COSA (NON) FA AIRBNB

Sta di fatto che Airbnb si è da sempre sottratta a tale obbligo e ha tempestivamente impugnato davanti al Tar prima e – dopo il rigetto del ricorso avvenuto nel 2019 – davanti al Consiglio di Stato la disposizione attuativa emanata dall’Agenzia delle Entrate per disciplinare le modalità di assolvimento di quest’obbligo.

Tale opposizione è articolata in diversi motivi, tra cui spicca la presunta violazione dell’articolo 56 sul TFEU che vieta qualsiasi restrizione al principio della libera prestazione di servizi nella UE e che abbia l’effetto di rendere più gravosa la prestazione di servizi tra Stati membri rispetto a quella interna a uno Stato. Airbnb ha sempre ritenuto che quei tre obblighi imposti dal decreto legge 50 del 2017, costituiscano esattamente una restrizione vietata dall’articolo 56 TFUE.

Senonché il TAR in primo grado già nel 2019 li ha sonoramente bocciati su tutta la linea. E il Consiglio di Stato con la sentenza pubblicata a fine ottobre, li ha pure ancor più sonoramente bastonati. Ricordando agli arrembanti ricorrenti che in Italia siamo ancora uno Stato sovrano, almeno in materia tributaria, e le regole noi le scriviamo e loro si adeguano. Non il contrario.

I “PATRIOTI” DI PALAZZO SPADA

In particolare, il Consiglio di Stato – vertendosi in materia di contrasto tra il diritto dell’Unione e il diritto interno – nel gennaio 2021 ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia (CGUE) che ha emesso la sua sentenza nel dicembre 2022. In tale sentenza, i giudici di Lussemburgo hanno dichiarato che la norma nazionale non confligge con l’articolo 56 del TFEU quando chiede di trasmettere informazioni (primo obbligo) e nemmeno quando chiede di eseguire la ritenuta (secondo obbligo). Il terzo obbligo, quello di nominare un rappresentante fiscale per i soggetti non residenti e non stabiliti, è stato invece ritenuto eccessivo e “non proporzionato” e quindi i giudici italiani di secondo grado hanno nuovamente bocciato tutti i motivi di ricorso di Airbnb, tranne uno, recependo per intero la sentenza della CGEU, cosa che non avrebbero potuto non fare. Di conseguenza si sono limitati ad annullare il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate in tutte le parti che menzionano il rappresentante fiscale.

E qui entrano in gioco i “patrioti” di Palazzo Spada, che pure nella loro sentenza non avevano esitato a fare “l’inchino” alla supremazia della CGEU. Infatti i legali di Airbnb hanno preteso che, per il solo fatto dell’assenza del rappresentante fiscale, cadesse nel nulla, in quanto impossibilitata a funzionare, tutta la norma sulle locazioni brevi.

Niente affatto. Sul punto, il collegio italiano ha liberato il freno costituito dalla necessaria condivisione delle conclusioni della CGEU e si è lasciato andare: “la tesi pur suggestivamente argomentata non convince”, è l’arabesco verbale quasi irridente con cui si respingono le tesi dei ricorrenti.

Infatti il rappresentante fiscale è solo “un’aggiunta”, una modalità indicata per eseguire l’adempimento. Ma non è l’unica e quindi l’obbligo di ritenuta resta valido anche a carico dell’intermediario non residente e privo di stabile organizzazione. La norma non smette di funzionare.

I DUE COLPI DI TEATRO FINALI

Finita qui? No. C’è il colpo di teatro finale. Anzi, due.

Airbnb avrebbe voluto che i giudici italiani (a cui la CGEU ha rinviato questa patata bollente) avessero riconosciuto la maggiore gravosità dell’obbligo di ritenuta per un non residente rispetto a un intermediario residente. In altre parole, la discriminazione sarebbe stata indiretta. Perché gli operatori non residenti né stabiliti, come Airbnb, ”non hanno familiarità con l’ordinamento giuridico italiano e devono quindi dotarsi di una apposita e complessa organizzazione e di processi ad hoc per conformarsi a tale regime fiscale”. Insomma, Airbnb che fattura miliardi di euro ed opera globalmente si sentirebbe discriminato per la difficoltà a “familiarizzare” con le leggi italiane e ad organizzarsi per versare una ritenuta. Fa ridere, già solo a pensarlo, figurarsi a leggerlo.

E i giudici romani non sono teneri, facendo rilevare che tali presunte difficoltà sono quelle “normali” per ogni operatore in un mercato diverso dal proprio e sono uguali per tutti gli operatori (residenti, stabiliti o non stabiliti). Inoltre non è nemmeno pensabile che il campo da gioco sia “rimodulato” (in modo “ergonomico”, e qui parte un’altra frecciatina) a favore dell’operatore straniero. Se ci si occupa di immobili italiani, le regole valgono per tutti, perché sono una condizione oggettiva del mercato. Da ultimo, prevale l’interesse generale della riscossione delle imposte. O Airbnb ci deve pure imporre come incassare le imposte?

A questo punto – riconosciuta la soggezione di Airbnb alle norme sulle locazioni brevi – la Procura di Milano ha avuto un assist perfetto per approdare al sequestro preventivo (un atto cautelativo e non definitivo, ricordiamolo) di 779 milioni, pari a tutte le ritenute non versate dal 2017 al 2022.

Il secondo colpo di scena è che non si tratta di evasione fiscale come comunemente intesa. Infatti, poiché Airbnb non è un soggetto né residente, né dotato di stabile organizzazione, è semplicemente un “responsabile di imposta”, non un “sostituto”. E questo è riconosciuto sia dai giudici italiani che dalla norma stessa. Cosa cambia? Molto. Il responsabile è obbligato in solido col debitore per il pagamento dell’imposta, ma non si sostituisce ad esso, diventando il soggetto passivo. È come il notaio che versa l’imposta di registro su un atto notarile (è il responsabile del solo versamento, ma il soggetto passivo resta il contraente dell’atto) ma è diverso dal datore di lavoro che trattiene le imposte sulla busta paga.

Questo significa che il soggetto passivo dell’imposta resta chi dispone dell’immobile e incassa le locazioni da Airbnb e che dovrebbe aver dichiarato quei redditi o versato la cedolare secca. Non ci sono elementi per presumere che ciò non sia avvenuto, ma qui non interessa. In termini sostanziali, se tutti avessero dichiarato e versato, il danno per l’Erario potrebbe non esistere. Ma il responsabile (e anche il sostituto) di imposta esiste proprio per evitare che lo Stato insegua migliaia di contribuenti e possa invece agevolmente incassare le imposte da chi ha la disponibilità finanziaria. Quindi sembra un aspetto formale, ma la forma è sostanza.

Se lo Stato pone un’obbligazione a carico di Airbnb e quest’ultima decide di interpretare autonomamente la legge e farsi scudo di improbabili norme europee, facendosi beffe di quel poco di sovranità fiscale di cui ancora disponiamo, il danno c’è già. A prescindere da tutto il resto. Anzi, il danno è proprio quello, prima ancora dell’ammanco nelle casse dello Stato.

Come si incassano le imposte lo decidiamo ancora noi e voi vi adeguate, hanno risposto i magistrati del Consiglio di Stato.

Back To Top