Sono state sufficienti appena nove righe di un laconico comunicato emesso dall’Abi questa mattina per fare sapere al governo che non c’è spazio per alcun contributo a carico delle banche. Non è ammissibile alcun impatto a conto economico e quindi sul patrimonio, al massimo qualche operazione con impatto sui tempi di incasso o pagamento di crediti/debiti fiscali.
Sono queste le uniche voci che – nei rapporti tra Stato e banche – potrebbero essere di «natura temporanea e predeterminata, con effetti esclusivamente finanziari e senza effetti retroattivi».
Il Comitato esecutivo dell’Abi ha deliberato di incaricare il direttore generale Marco Elio Rottigni di approfondire eventuali misure di questo tipo, nulla di più.
Si sciolgono così come neve al sole le decine di articoli che abbiamo letto in questi giorni circa un probabile “contributo di solidarietà” delle banche in vista della legge di bilancio 2025. Per la quale è già partito lo stucchevole giochino delle anticipazioni e che, in ogni caso, dovrà fare i conti con la solita situazione di risorse insufficienti rispetto agli obiettivi.
Non c’è alcuna solidarietà. Se lo Stato avesse intravisto la possibilità, Costituzione alla mano, di eseguire un prelievo proporzionalmente maggiore, lo avrebbe già fatto. Non c’è bisogno di “oboli”.
Le imprese bancarie escludono a priori la possibilità che ci sia un prelievo aggiuntivo sugli utili che già oggi scontano un’addizionale Ires del 3,5% che si aggiunge all’aliquota ordinaria del 24% che invece grava su tutte le altre imprese. Abbiamo già dato, è la risposta delle banche alle manovre di posizionamento in corso da qualche settimana da parte di esponenti del governo e della maggioranza che avevano tutto il sapore di sondaggi del terreno.
Quel «con effetti esclusivamente finanziari» pesa come un macigno sulle ambizioni del governo di poter mettere in bilancio maggiori entrate strutturali provenienti dal settore bancario. Al massimo, la disponibilità dell’Abi potrà produrre effetti sul fabbisogno di cassa dello Stato e quindi un minore ricorso al mercato. Ma nessun impatto sul deficit. In altre parole, se le banche dilazionassero l’incasso di crediti fiscali o anticipassero il pagamento di debiti fiscali, lo Stato, per pari importo, potrebbe evitare l’emissione di Bot o Btp. Ma nulla di più.
Dopo la magra figura dell’anno scorso, proprio durante queste settimane, il governo quest’anno aveva optato per un approccio ragionato e una sorta di “moral suasion” che, evidentemente, non hanno avuto effetto.
C’è da notare che il concetto stesso di “extraprofitti” è molto evanescente, pur noto in dottrina, e la Corte Costituzionale aveva già avuto modo di occuparsene nel 2015 a proposito della Robin Hood Tax del governo Berlusconi nel 2008. Secondo la Corte «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione».
Insomma lo spazio lasciato dalla Corte era già molto stretto (bisogna definire un profitto “immeritato” frutto di circostanze esogene, rispetto a un profitto “normale. Forse nel bilancio 2023, con i tassi ancora crescenti e relativamente alti, ci sarebbe stato lo spazio per tassare più incisivamente i profitti, ma sappiamo com’è finita. Oggi, con tassi decrescenti, l’Abi ha avuto gioco facile nello sbattere la porta in faccia al governo.
La tesi sottostante è che le banche sui profitti già pagano più di tutti e non ci sono ragioni per giustificare un prelievo che incida ancora di più. Le maggiori imposte conseguenti ai maggiori utili sono il massimo che possono dare. Non un centesimo di più.