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Disney Streaming

Perché Disney detterà le regole dell’industria entertainment americana

Pubblichiamo un estratto di "Le piattaforme mondo - L’egemonia dei nuovi signori dei media", nuovo saggio Luca Balestrieri, docente di Economia e gestione dei media alla Luiss

Prima della pandemia, Disney aveva già pianificato la transizione verso la distribuzione online, affiancando a fine 2019 la nuova piattaforma streaming Disney+ alle preesistenti ESPN+ (filiazione dei canali sportivi appartenenti al gruppo e tra i maggiori protagonisti della tv via cavo) e Hulu (joint venture tra media company, di cui ha assunto il controllo nel 2019 grazie all’acquisizione di gran parte delle attività di Fox). La strategia prevedeva una gestione controllata della transizione e gli obiettivi dichiarati erano a questa allineati: Disney+ aveva il compito di raggiungere tra 60 e 90 milioni di abbonati entro il 2024. Il Covid-19 ha travolto ogni possibilità di transizione prudente. Due tra le principali aree di business di Disney, la produzione cinematografica e i parchi tematici, ne sono stati colpiti duramente. L’accelerazione del cord cutting ha mostrato l’insostenibilità di medio periodo della distribuzione via cavo o satellite dei canali sportivi, che assieme al broadcaster generalista Abc costituiscono il cuore televisivo del gruppo.

In questo contesto di incertezza, il mercato ha dato un’indicazione netta, con l’exploit – inatteso e clamoroso – di Disney+, che a marzo 2021 ha superato nel mondo i cento milioni di abbonati, anticipando di tre anni il raggiungimento del suo obiettivo di partenza, mentre l’insieme dello streaming del gruppo (Disney+, ESPN+ e Hulu) a quella data raggiungeva 137 milioni di abbonati: un risultato che ha legittimato l’indicazione di un nuovo obiettivo per il 2024, quello di 300-350 milioni di abbonati sparsi in tutto il pianeta per l’insieme dei servizi streaming del gruppo,48 di cui 230-260 per la sola Disney+.49 La scommessa sull’accelerazione verso l’online è stata rafforzata con la decisione, nel settembre 2020, di rinunciare all’uscita nelle sale del nuovo film Mulan (con l’eccezione della Cina dove il blocco della distribuzione cinematografica a causa del lockdown stava rientrando): negli Stati Uniti e nei Paesi dove era già disponibile Disney+, il film è stato disponibile sulla piattaforma, con un costo di noleggio aggiuntivo all’abbonamento. Un azzardo, per una produzione costata 200 milioni di dollari. A ulteriore conferma dell’irreversibilità del nuovo indirizzo strategico, a ottobre 2020 il gruppo ha annunciato una riorganizzazione che, nei prossimi anni, ne rifocalizzerà le attività in funzione della piattaforma streaming, per la quale saranno prioritariamente ideati i nuovi contenuti audiovisivi.

Il nuovo posizionamento di Disney ha implicazioni per l’insieme dell’industria americana e, di conseguenza, per la scena mediale internazionale. La prima conseguenza è che il processo di piattaformizzazione dei media, tramite la trasformazione e riorganizzazione delle media company e del loro modello di business, è una strada irreversibile. Non si tratta più di avere anche una presenza nello streaming, a fianco dei tradizionali modelli di offerta: adesso la scommessa diventa riorganizzare l’insieme delle attività e delle supply chain in funzione della riconversione a piattaforma. Se lo ha fatto Disney, nessuno può sottrarsi a questa scelta. Tutte le altre media company statunitensi si sono rapidamente allineate a questo strappo, con prospettive assai diversificate di successo.

Disney ha dimensioni tali da consentirle di dettare all’industria la direzione da prendere, perché si è affacciata agli anni Venti come la più grande media company tradizionale del mondo, in termini di fatturato (69,6 miliardi di dollari nel 2019, e 65,4 nel 2020) e di copertura sinergica di tutto il settore. Presidia il broadcasting con ABC. È in primo piano nella pay-tv con i canali sportivi ESPN, il classico Disney Channel, FX (uno dei protagonisti della stagione d’oro della serialità creativa) e altri canali che contribuiscono a creare un pacchetto di offerte che nessun operatore via cavo può permettersi di non avere, qualunque sia il prezzo che Disney chiede. I suoi studios producono serie, documentari e programmi destinati ai bambini per l’America e per il mondo. Soprattutto, Disney a Hollywood è diventata dalla seconda metà degli anni Dieci una super major, un soggetto che fa classe a sé. La sua forza, attraverso tutta la sua storia, è la capacità di costruire universi di racconto da esplorare attraverso un percorso transmediale, con l’invenzione (o l’appropriazione) di complessi mondi narrativi.

La crescita è stata endogena nella fase iniziale – dal primo cortometraggio di Mickey Mouse (Steamboat Willie, 1928) al primo lungometraggio d’animazione della storia del cinema (Biancaneve e i sette nani, 1937) – e nella fase di rilancio creativo ed economico degli anni Novanta, da La Sirenetta (1989) a Il Re Leone (1994). È cresciuta però ulteriormente con l’acquisizione di Lucas Film (2012), che ha rinnovato l’universo delle storie Disney con la saga di Star Wars, e della Marvel (2009), che ha portato in dote un portafoglio di personaggi dei fumetti composto da icone della cultura di massa: un universo supereroistico grazie al quale Disney ha prodotto una lunga serie di blockbuster capaci di raccogliere ciascuno – come Avengers: Endgame, rilasciato nel 2019 – fino alla stratosferica cifra di 2,8 miliardi di dollari al box office mondiale. La crescita è infine diventata salto qualitativo con l’acquisizione di 21st Century Fox, che nello scenario di Hollywood ha confermato a Disney lo status di super major. Nel 2019, i film Disney hanno incassato al box office mondiale 11,1 miliardi di dollari, con una quota di mercato pari al 26,2%; sommando a questa i ricavi dei film 21st Century Fox, acquisita quello stesso anno, Disney ha incassato 13,1 miliardi di dollari, pari al 31% di tutto il box office planetario: quasi un terzo dei ricavi cinematografici dell’intera industria mondiale. Date le dimensioni di Disney nel mercato cinematografico, la sua decisione di portare i nuovi film direttamente sulla piattaforma streaming è una rivoluzione per l’industria, destinata a scrivere nuove regole per gli anni Venti.

La riapertura delle sale, alla fine del lockdown, non ha rimesso le lancette indietro agli anni Dieci, anche se i film Disney sono tornati nei cinema. La contemporaneità tra l’uscita nelle sale e quella sulla piattaforma è la nuova formula: solo per fare un esempio, uno dei film di punta del 2021, Black Widow con Scarlett Johansson, appartenente all’universo narrativo Marvel, è uscito allo stesso tempo nei cinema e su Disney+.

Ancora una volta, se questa è la strada scelta da Disney, gli altri devono seguire, tanto più che anche le altre major hollywoodiane sono state negli ultimi decenni una a una inglobate nelle media company che hanno nella tv via cavo il baricentro industriale e finanziario e che adesso sono costrette a cambiare modello di business e schema d’integrazione industriale: Universal fa parte del gruppo Comcast, Paramount di ViacomCbs, Warner è integrata in WarnerMedia, fino a poco tempo fa controllata da AT&T. Quando Warner ha annunciato, subito dopo lo choc provocato dalla decisione di Disney di portare Mulan in Nord America solo sulla piattaforma streaming, che il suo film Wonder Woman 1984 sarebbe uscito a Natale 2020 in contemporanea nelle sale e in streaming su HBO Max, la piattaforma di WarnerMedia, il mercato ha interpretato l’annuncio come una decisione indotta dall’emergenza pandemica e non come una scelta strategica. Tuttavia, questa doppia uscita è stata confermata per l’intera produzione Warner 2021, forte di 17 film tra i quali produzioni ad alto budget come The Matrix 4 e il remake di Dune.

Mettere in crisi una filiera industriale che da cento anni si interfaccia con il consumatore tramite le sale, e al contempo scardinare il criterio delle finestre di sfruttamento del film, che prevede rigide esclusive a protezione del meccanismo di ottimizzazione dell’estrazione del valore dal prodotto, è per le media companies sicuramente una scelta difficile e per certi versi rischiosa, data l’incertezza sull’effettiva possibilità di sostituire i ricavi dei box office con quelli provenienti dalle piattaforme streaming. È una decisione che mette in luce come le media company stiano ormai lottando per la sopravvivenza.

La fase della guerra dello streaming che si apre adesso è talmente dura che queste società, convertite in piattaforme, rischiano di cannibalizzare il box office, uno dei settori di business più solidi nell’era pre Covid-19 e in continua espansione per tutto il decennio passato. Pur di fornire contenuto pregiato alla competizione sul solo terreno che ormai conta per il futuro – la lotta tra piattaforme streaming per i mercati mondiali – devono sacrificare quello che fino a poco fa era il loro habitat naturale.

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