Il “modello rete” è stato individuato come il modello organizzativo tra quelli maggiormente rispondenti alle esigenze delle nostre piccole imprese che potesse più facilmente favorire il superamento delle carenze strutturali presenti nel sistema produttivo e favorire lo sviluppo dei territori ove queste imprese sono localizzate.
Una simile priorità ha preso forma partendo da alcuni elementi oggettivi caratterizzanti il nostro sistema imprenditoriale: un sistema strutturalmente composto da milioni di micro e piccole imprese (il 99,4% del totale delle imprese italiane ha meno di 49 addetti di cui il 95,2% ha meno di 9 addetti) capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale; con una dimensione media più piccola in tutti i settori rispetto alla media europea: 4 addetti contro la media europea di 6,2 addetti; nel manifatturiero il confronto è dato tra i 9 addetti dell’Italia e i 14,6 addetti nell’Ue27; una piccola dimensione che in molti casi risulta essere una “barriera all’entrata” ai processi di internazionalizzazione/innovazione; spesso sottocapitalizzate per circa 200 miliardi di euro (Banca d’Italia – Relazione Annuale Vari anni) e con problemi di trasmissione/successione di impresa (circa 600mila imprese nei prossimi anni dovranno affrontare questo problema) dovuti anche all’alta età media degli imprenditori (più della metà dei nostri imprenditori ha più di 65 anni).
Fare rete tra imprese sul territorio significa interdipendenza stabile e governata, che affida a un legame affidabile la possibilità di usare al meglio – in termini di risultati economici – la conoscenza posseduta dai suoi singoli nodi.
Chi non lavora in rete, in altri termini, non è soltanto più “isolato”, ma è anche meno efficiente, più rigido e meno creativo e quindi meno performante. Poiché queste carenze riducono il rendimento degli investimenti in conoscenza e in sostenibilità ambientale, è possibile stimare che col passare del tempo l’impresa “isolata” diventi anche meno “sapiente e ecologica” e quindi meno competitiva sul mercato. L’utilizzo della rete come modello organizzativo favorisce questi processi di aggregazione e di investimento, riduce l’isolamento e migliora il posizionamento competitivo delle imprese.
Su queste basi concettuali, nel 2009, il Ministero dello Sviluppo Economico individuò il contratto di rete come nuova forma di aggregazione aziendale, poi divenuto legge 33/2009 e implementato dalla Legge 99/2009 (Legge “Sviluppo”) e successive modifiche. Da allora lo strumento ha trovato dei riscontri molto positivi presso le imprese italiane se al 3 settembre 2019 sono stati costituiti ben 5.698 contratti di rete (al 31 dicembre 2014 erano solo 1.884) che coinvolgono 34.032 imprese (al 31 dicembre 2014 le imprese erano solo 9.812 imprese) (Fonte: Infocamere). Sostanzialmente, sia i contratti di rete stipulati che le imprese partecipanti, in un quinquennio sono triplicati.
A livello regionale, è il Lazio ad avere più imprese organizzate in contratto di rete con 8.790 imprese, seguito dalla Lombardia (3.528 imprese) e dal Veneto (2.696 imprese). La sorpresa positiva viene dal Sud con la Campania che si posiziona al 4° posto con ben 2.549 imprese.
Partendo da queste premesse, come già sostenuto in un precedente articolo apparso su questo giornale, la grande sfida che l’Italia e le nostre imprese dovranno affrontare sin da subito è rispondere in modo adeguato ed efficace alle complesse dinamiche ambientali e sociali che il passaggio graduale dall’economia lineare all’economia circolare comporta, in particolare in una economia dove circa il 50% delle proprie imprese a meno di 49 addetti. Una criticità, quest’ultima, da tenere ben presente nella progettazione del processo di cambiamento in materia ambientale da parte dei policy makers.
Ciò perché la riconversione in “termini circolari” di alcuni processi di produzione richiederà ingenti investimenti (elevati costi fissi e con un ammortamento di medio-lungo periodo) che sicuramente saranno affrontati con difficoltà soprattutto dalle imprese di più piccole dimensioni, anche appartenenti ad una filiera, se non sostenute con incentivi finanziari e/o agevolazioni anche di tipo fiscale.
Il rischio, se non tutta la filiera produttiva risponderà ai medesimi criteri di circolarità, sarà quello di vanificare ciò che di buono si farà a monte o a valle del processo. In sintesi, il modello di economia circolare non si può applicare a “macchie di leopardo” nella formazione della catena del valore, altrimenti perde tutta la sua efficacia ovvero se ne riducono le potenzialità (come già sostenuto in un predente articolo apparso su questo giornale).
In questo contesto, al fine di superare la “barriera all’entrata” dimensionale delle nostre imprese e favorire la loro partecipazione all’economia circolare in questa sede si presenta una proposta: istituire il “contratto di rete circolare” ossia un contratto di rete tra imprese organizzate in filiera o appartenenti allo stesso settore e/o a settori diversi che abbia come specifico obiettivo “la realizzazione di un processo produttivo circolare” lungo tutta la catena del valore.
La stretta collaborazione tra imprese green, quindi, avrebbe come fine ultimo la riduzione degli scarti di produzione, il favorire il risparmio e l’efficientamento energetico (come ad esempio l’uso di sistemi di smart grid in produzione e della certificazione 50001) e l’allungamento del ciclo di vita dei prodotti.
La sola introduzione dello strumento del “contratto di rete circolare” nel nostro sistema normativo sarebbe a costo zero per la finanza pubblica in quanto basterebbe una semplice norma che integri quella già esistente relativa al contratto di rete che, come visto in precedenza, gode di un elevato gradimento presso le imprese sia a Nord che a Sud del nostro Paese.
Infine, con l’obiettivo di stimolare la partecipazione delle piccole imprese al “contratto di rete circolare” si potrebbero, e solo per un tempo determinato, prevedere anche incentivi/agevolazioni con una specifica premialità in termini di credito di imposta e/o di defiscalizzazione degli utili, in toto o in parte, prodotti dall’attività economica dovuta al “contratto” e non dalle singole imprese. Ai policy makers la decisione di dotare eventualmente di risorse finanziarie il nuovo strumento.
Giuseppe Capuano, economista, attualmente dirigente del Ministero dello Sviluppo Economico
(Le opinioni espresse nell’articolo non coinvolgono assolutamente il MISE e sono strettamente personali)