Già negli anni settanta con il Rapporto “Limiti alla Crescita” del Massachusetts Institute of Technology e del Club di Roma, si sollevavano le prime preoccupazioni non solo economiche ma anche sociali e ambientali connesse all’attuale modello di sviluppo economico basato su una crescita illimitata del consumo delle risorse disponibili e del capitale naturale.
Partendo da questa premessa, la grande sfida che l’Italia e le nostre imprese dovranno affrontare sin da subito è rispondere in modo adeguato ed efficace alle complesse dinamiche ambientali e sociali che il passaggio graduale dall’economia lineare (materia prima-produzione-uso-rifiuto, come fin dalla prima rivoluzione industriale era stata pensata la catena del valore), passando per l’economia del riciclo (materia prima-produzione-uso- poi in parte riciclata e in parte rifiuto, come a partire dagli anni settanta-ottanta fino ad oggi è stata concepita) per finire all’economia circolare (materia prima-produzione-uso-riciclo) comporta e comporterà maggiormente nei prossimi anni.
In particolare, per “circolar economy” si intendono quei sistemi che generano l’uso più efficiente di risorse attraverso l’estrazione del massimo valore possibile dai prodotti e dai materiali durante l’utilizzo e che estendono la longevità del prodotto attraverso il riutilizzo. Una definizione, quest’ultima, che si focalizza sulla massimizzazione dell’efficienza nell’utilizzo di un prodotto o materiale.
Una riconversione strategica del nostro sistema economico alla “circolar economy” che dovrà essere attuata in maniera graduale ma costante, in grado comunque di mantenere allo stesso tempo la competitività del sistema produttivo italiano, se consideriamo che circa il 30% del nostro PIL è prodotto grazie alle esportazioni di circa 200mila imprese.
Una altro fattore da tenere ben presente nella progettazione del processo di cambiamento da parte dei policy makers, e che a seconda dei punti di vista può costituire un punto di forza e/o una criticità, è la piccola dimensione delle nostre imprese in tutti i settori merceologici, se paragonata alla media europea, senza scomodare le altre economie leader del pianeta.
Ciò perché la riconversione in “termini circolari” di alcuni processi di produzione richiede ingenti investimenti con elevati costi fissi con un ammortamento nel medio-lungo periodo, che sicuramente saranno affrontati con difficoltà dalle imprese di più piccole dimensioni, anche appartenenti ad una filiera, se non sostenute con incentivi finanziari e/o agevolazioni anche di tipo fiscale.
Il rischio, se non tutta la filiera produttiva risponderà ai medesimi criteri di circolarietà, sarà quello di vanificare ciò che di buono si farà a monte o a valle del processo. In sintesi, il modello di economia circolare non si può applicare a “macchie di leopardo” altrimenti perde tutta la sua efficacia ovvero se ne riducono le potenzialità.
Queste preoccupazioni sono fondate se consideriamo che notoriamente il nostro sistema di impresa è costituito da circa 5 milioni di micro e piccole imprese (di cui solo circa 22.000 sono medie imprese e solo circa 3.300 le grandi imprese) di cui circa 100mila imprese sono costituite sotto forma di cooperative.
Considerata la forte parcellizzazione del nostro sistema produttivo, quindi, la sfida non si porrà solo in termini “industriali” (una barriera che in parte potrebbe essere superata con la creazione di nuove reti di impresa e l’irrobustimento di quelle esistenti) ma anche e soprattutto in termini sociali e culturali, e che avrà un impatto anche sulle abitudini e stili di vita dei cittadini-consumatori.
Un nuovo modo di pensare l’economia che, con tutte le sue inevitabili difficoltà, dia l’avvio ad una nuova politica industriale finalizzata alla sostenibilità e all’innovazione in grado di incrementare la competitività del prodotto e dei settori produttivi, ripensando al modo di consumare e fare impresa.
L’Italia ha le caratteristiche e le capacità per farlo e deve cogliere questa opportunità per sviluppare nuovi modelli di business che sappiano valorizzare al meglio il Made in Italy e il ruolo delle imprese appartenenti anche al sistema cooperativo, con particolare riferimento alle imprese sostenibili e innovative che sono quelle che recenti studi hanno indicato come “le maggiori creatrici di occupazione”.
Un primo segnale in questa direzione è rappresentato dal “Decreto Crescita n. 34/2019” approvato recentemente, dove sono stati stanziati, tra gli altri, 140 milioni di euro a favore dell’economia circolare. In particolare sono state previste agevolazioni a sostegno di progetti di ricerca e sviluppo per la riconversione dei processi produttivi. L’obiettivo principale della misura, come si evince dalla relazione tecnica allegata al provvedimento, è quello di favorire la transizione delle attività economiche verso un nuovo modello di produzione. Gli ambiti progettuali riguarderanno il trattamento dei rifiuti, il riuso dei materiali, la riduzione e il riuso degli scarti alimentari, lo sviluppo di sistemi di ciclo integrato delle acque e riciclo delle materie prime, lo sviluppo delle tecnologie per la fornitura, l’uso razionale e la sanificazione dell’acqua, nonché modelli di packaging intelligente che prevedono l’utilizzo anche di materiali recuperabili.
Un nuovo paradigma fondante per una nuova politica industriale è stato avviato, nella speranza che esso possa costituire solo l’inizio di un “new deal” e che possa favorire nel tempo un passaggio soprattutto culturale all’economia circolare del nostro sistema produttivo, in cui si supporti e si valorizzi soprattutto il ruolo strategico delle imprese sostenibili e innovative e delle startup, al fine di creare reddito e occupazione a basso impatto ambientale.
Giuseppe Capuano, economista, attualmente dirigente del Ministero dello Sviluppo Economico
(Le opinioni espresse nell’articolo non coinvolgono assolutamente il MISE e sono strettamente personali)