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Nenni Moro

Moro, Nenni e il centro-sinistra con il trattino

Il Bloc Notes di Michele Magno

Il 5 novembre 1963 Pietro Nenni annota nel suo diario: “Si apre la crisi che per la prima volta, a parte la parentesi del 1944-47, dovrebbe portare i socialisti al governo. È quanto ho voluto con una lunga e tenace battaglia, motivata dalla convinzione che senza un compromesso con la Dc, e in senso sociale con i nuovi ceti medi del parastato, la classe della democrazia è troppo debole per far fronte alle minacce della destra. D’altra parte, la nostra posizione era divenuta quasi drammatica tra l’integralismo democristiano, e forse in senso più vasto cattolico, e quello comunista: le due chiese sostanzialmente alleate contro il terzo incomodo, cioè contro i socialisti, i laici del movimento operaio”. Esattamente un mese dopo, conclude: “Eccomi da stasera vicepresidente del Consiglio nel primo governo Moro […] È una vittoria politica nella battaglia che ho cominciato nel 1956 per fare uscire il Psi da un pericoloso isolamento […]”.

Queste citazioni si possono leggere nell’Annale della Fondazione Feltrinelli 2012 dedicato alla genesi e al tramonto del primo “centro-sinistra organico” (“Il riformismo alla prova”). I suoi curatori, Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone, vi hanno incluso una mole ragguardevole di documenti, ordinati cronologicamente e tratti da innumerevoli fonti: oltre ai taccuini di Nenni, Manlio Brosio, Amintore Fanfani e Antonio Giolitti, atti parlamentari, archivi dei partiti, cablogrammi delle ambasciate, dossier dei servizi segreti, informative dei carabinieri e della polizia, epistolari inediti (di Cesare Merzagora e Aldo Moro, in particolare). Il materiale selezionato abbraccia la travagliata gestazione della nuova compagine ministeriale, che si concluderà il 26 giugno 1964, fino ai due successivi e cruciali eventi dell’estate di quell’anno: l’incidente cardiovascolare del presidente della repubblica Antonio Segni, e la morte del segretario del Pci Palmiro Togliatti.

Nella ricostruzione di Franzinelli e Giacone, è nel 1960- dopo il fallimento del governo presieduto da Fernando Tambroni- che Moro e Nenni gettano segretamente le basi della nuova formula politica, e concordano le sue tappe intermedie: astensione socialista sull’esecutivo delle “convergenze parallele” (luglio 1960-febbraio 1962), varato con il voto favorevole del Psdi, del Pli e del Pri; sostegno esterno al successivo governo Fanfani (febbraio 1962-maggio 1963), a cui si dovrà la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media inferiore e l’introduzione della “cedolare secca” sui titoli azionari. Misura, quest’ultima, avversata aspramente dagli ambienti confindustriali. L’intesa tra il quarantasettenne leader democristiano e l’anziano leader socialista era sorretta da un saldo rapporto di stima e di amicizia. Culturalmente molto distanti tra loro, li accomunava l’ esigenza di una svolta riformista per modernizzare il Paese.

Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia era cambiata profondamente. Il lungo boom economico aveva trasformato mestieri e produzioni, la vita delle città e dei campi, stili di vita e di consumo dei ceti popolari. Si diffonde un certo benessere, cala la disoccupazione, i giovani sono più istruiti. Per altro verso, storiche arretratezze -a partire da quella meridionale- e vecchie ingiustizie distributive diventano più stridenti, e riaprono il problema del modello di sviluppo nazionale. Negli studi di Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini e Francesco Forte, nell’analisi di Giorgio Amendola al convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano (marzo 1962), nella “Nota aggiuntiva” del ministro del Bilancio Ugo La Malfa (maggio 1962), tutte le diagnosi convergono sulla necessità di assicurare una crescita più equilibrata, valorizzando il ruolo della mano pubblica senza penalizzare quello del mercato. Necessità sollevata con fermezza da Pasquale Saraceno al convegno democristiano di San Pellegrino (settembre 1961), che sarà letto come una specie di battesimo ideologico del centro-sinistra.

Incoraggiato dalle aperture dottrinarie e sociali dell’enciclica di Giovanni XXIII “Mater et Magistra”, l’economista di Morbegno prova a innovare la tradizione del solidarismo cattolico, ipotizzando un compromesso più avanzato tra “libero arbitrio” dell’operatore privato e “azione provvidenziale” del decisore pubblico. L’enciclica giovannea ispirerà anche la relazione di Moro al congresso Dc di Napoli (gennaio 1962), che ribadisce il primato della politica e il suo l’irrinunciabile dovere di correggere anomalie e storture del meccanismo di accumulazione. Lo stesso Nenni aveva osservato l’anno precedente: “Nell’ultima enciclica papale sono comparsi i concetti di piano e di socializzazione in una accezione del termine che non è la nostra, ma che tuttavia apre nuove prospettive al movimento sociale delle masse cattoliche. Politica di piano e funzione economica dello stato moderno, nella tutela preminente dei diritti del lavoro e non di quelli della proprietà, sono stati due temi sui quali […] si sono scontrate la nuova e la vecchia generazione politica cattolica”.

Riaffermati energicamente questi obiettivi, il congresso di Roma (ottobre 1963) delibera la partecipazione del Psi al governo, che subentrerà al monocolore “balneare” di Giovanni Leone (giugno-novembre 1963). La sua formazione non sarà però una passeggiata. Fanfani respinge l’invito a scegliere un dicastero di suo piacimento. Riccardo Lombardi preferisce restarne fuori. Mario Scelba minaccia di votare contro. La corrente dorotea, che ha un peso schiacciante nella Dc, concede un sostegno condizionato al presidente del Consiglio incaricato. Moro è costretto a cedere a Mariano Rumor la guida del partito. Inoltre, l’ingresso nella “stanza dei bottoni” è pagata dal Psi con la scissione dei “carristi” (così chiamati perché favorevoli all’intervento sovietico del 1956 in Ungheria). Nenni si sfoga con Moro: “L’irreparabile per il mio partito e per me è avvenuto, mentre per il tuo partito e per te è ancora sulla bilancia. È anzi assai probabile che la scissione socialista eviti la scissione democristiana” (lettera del 16 dicembre 1964).

Il varo del governo non è indolore nemmeno per il Pri. Un suo esponente di spicco, Randolfo Pacciardi, si dissocia nel voto e viene espulso dal partito. Fonderà con Giorgio Pisanò il movimento di Nuova Repubblica. Il Psdi è invece schierato in modo compatto con la posizione del segretario Giuseppe Saragat. Insediatosi alla Farnesina, si ritaglia uno spazio autonomo sulla scena internazionale, grazie ai suoi legami con l’amministrazione americana di Lyndon Johnson e con i laburisti inglesi di Harold Wilson. Si comincia a parlare di unificazione socialista, ma non mancano i motivi di attrito col Psi: sulla creazione -allora in campo- di una forza multilaterale atomica e sul coordinamento della politica economica, in cui rivaleggiavano il ministro socialdemocratico delle Finanze Roberto Tremelloni e il ministro socialista del Bilancio Antonio Giolitti.

La nascita del gabinetto Moro-Nenni incontra la dura ostilità del Pci. Il giudizio negativo di Togliatti è drastico. Egualmente categorico è Amendola, secondo cui “l’inserimento del Psi nell’area governativa sulla base di un cattivo accordo è un fatto molto grave”, ma “la pressione delle masse può essere l’elemento determinante per sbloccare la situazione, superare le difficoltà e i pericoli” (Direzione del 28 novembre 1963). Valutati i presunti cedimenti dei nenniani, il vertice comunista (con qualche eccezione, tra cui quella di Giorgio Napolitano ) inizialmente confida in una scissione che li metta alle corde, poi teme di essere scavalcato a sinistra dalla pattuglia di Lelio Basso e Tullio Vecchietti. Costituitosi il Psiup (gennaio 1964), Amendola esorta alla “lotta sui due fronti” e Botteghe Oscure sconfessa quasi all’unanimità la posizione del segretario della federazione giovanile Achille Occhetto, che aveva incontrato alcuni dirigenti del neonato partito (30 gennaio 1964).

Appena insediatosi, il governo nomina una commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, a cui segue un disegno di legge per la ricostruzione delle zone distrutte. Il Monopolio banane, tradizionale feudo democristiano, è soppresso. Viene affrontato il nodo delicato dei patti agrari, aumentando la quota del prodotto spettante ai mezzadri. Ma sui punti più spinosi del programma i dissidi non tardano a scoppiare. La legge istitututiva delle regioni viene rapidamente affossata. Analoga sorte toccherà alla legge urbanistica, sebbene lo schema predisposto dal ministro dei Lavori Pubblici Giovanni Pieraccini circoscrivesse a pochi settori la possibilità di esproprio. Il progetto di programmazione quinquennale presentato da Giolitti (meno consumi di lusso, più investimenti per i bisogni essenziali) si arena nelle secche della prima recessione postbellica.

La Fiat di Vittorio Valletta, in principio favorevole al centro-sinistra, attacca aspramente le “riforme di struttura ” promosse dal Psi. In una lettera del 10 febbraio 1964 indirizzata a Colombo, il presidente del Senato Cesare Merzagora illustra l’avversione degli ambienti finanziari milanesi al centro-sinistra. Fanfani, che si ritiene il suo pioniere, non accetta di essere stato spodestato e sceglie il romitaggio toscano, dove coltiva la pittura e gli studi storici. Nenni commenterà: “Sa, o ritiene (che poi è la stessa cosa), di non avere avuto al governo il pieno appoggio di Moro ed è pronto ad accordarsi con chiunque si proponga di rendere difficile la vita a Moro. Così, anche dove ha ragione, finisce per avere torto. È un peccato perché, caratteraccio a parte, è pur sempre un uomo di iniziativa e, in certi casi, di coraggio” (18 aprile 1964). Diversamente dallo statista aretino, il ministro della Difesa Giulio Andreotti asseconda l’orientamento del Vaticano di sostanziale sostegno al centro-sinistra, e Moro nel suo diario non manca di lodarne la leale collaborazione.

Dopo l’elezione di Segni al Quirinale e l’arrivo del leader pugliese a Palazzo Chigi, inizia a emergere la spaccatura tra morotei e dorotei. Il titolare del Tesoro Emilio Colombo caldeggia una linea rigorista alternativa a quella del governo. Suo autorevole mentore è il governatore di Bankitalia Guido Carli, che si fa sentire già nel dibattito sulla fiducia alle Camere. Il 16 dicembre 1963, Giolitti racconta: “Nel pomeriggio mi telefona Morlino per consultarmi in merito a un intervento di Carli, che protesta perché nel discorso di presentazione al parlamento Moro non ha tenuto conto sufficiente delle sue raccomandazioni, e ha invece prestato ascolto ad altri consiglieri (Andreatta). Vedo Carli. Il suo testo -che propone per il discorso di replica- è severo e rigoroso. Lo considero accettabile e opportuno se ancorato a un fermo impegno per la programmazione […]”. Il contrasto -più apparente che reale- tra il liberista Carli e il keynesiano Giolitti ruotava, in definitiva, intorno alla richiesta di non sacrificare la politica di piano sull’altare della pur indispensabile stabilità finanziaria. Due mesi dopo, il titolare del Bilancio presenta al Consiglio dei ministri una serie di provvedimenti anticongiunturali, compresa l’abolizione della cedolare d’acconto (rimproverata da Lombardi).

È però Colombo, nella primavera 1964, a provocare un terremoto nell’Esecutivo. Il 15 maggio invia a Moro un memorandum, in cui paventa il pericolo che la politica economica del governo possa “dare un colpo mortale alle istituzioni democratiche”. Sollecita quindi l’adozione di una manovra di bilancio restrittiva con il coinvolgimento dei sindacati, oppure un blocco dei salari per decreto, abbinato all’abbandono di ogni proposito riformatore. Moro decide di non rispondere, facendo leva su una sperimentata tattica temporeggiatrice. Sennonché il 27 maggio il quotidiano romano “Il Messaggero” pubblica un riassunto del documento. Nenni, convinto che Colombo abbia intenzionalmente collocato “un petardo sotto i piedi del ministero di cui fa parte”, ne pretende le dimissioni. Moro dichiara di non voler “dare pubblicità alla lettera, in quanto si tratta di una lettera privata”. Dopo che Ferdinando Ventriglia, il più stretto collaboratore dello statista lucano, si assume la responsabilità della sua divulgazione, chiude l’incidente e nell’aula di Montecitorio conferma che il suo governo è incamminato “sulla via di un nuovo equilibrio politico che salva nel modo migliore, nella presente situazione, la libertà e nella libertà inserisce una politica di sviluppo e di giustizia”(8 giugno 1964).

Quel “suo governo” ha comunque i giorni contati. Quando prospetta l’idea di un risparmio forzoso sugli incrementi retributivi dei lavoratori, Merzagora pungola Segni affinché faccia capire a Moro che ha imboccato una “strada pericolosa, anche costituzionalmente” (15 giugno). Dal canto suo, l’inquilino del Quirinale lo incalza con un fitto elenco di lamentele -dagli eccessi di spesa alla mancanza di trasparenza nei suoi confronti- che culmina in un’invocazione accorata: “Speriamo che Iddio disperda questa nube che grava sullo spirito degli italiani, prodotta dalla politica economica errata che da qualche anno si segue, e che la fiducia possa rinascere, per effetto di atti concreti di raddrizzamento della situazione” (21 giugno).

Alla riunione interministeriale del 22 giugno, i socialisti contestano il previsto rimborso degli oneri sociali all’industria e il rinvio delle leggi sul suolo e sulle regioni, mentre esigono una tassazione più elevata sui redditi da capitale. Lo spettro della crisi è ormai dietro l’angolo. Al termine della sua visita romana, il 25 giugno l’assistente speciale del presidente Johnson Walt Rostow comunica al Dipartimento di stato americano le sue impressioni. Il governo Moro è definito come “un gruppo di brave persone, integre e di reciproca lealtà”, ma assediato da ogni parte e destinato a cadere in breve tempo. Non poteva immaginare che sarebbe caduto proprio mentre veniva trasmesso il suo dispaccio. Il governo viene infatti sconfitto alla Camera nella votazione su uno stanziamento aggiuntivo per la scuola privata, per l’indisponibilità degli alleati laici della Dc a foraggiare l’educazione cattolica: tra gli astenuti figurano i socialisti Tristano Codignola, Francesco De Martino e Lombardi, il socialdemocratico Mauro Ferri, il repubblicano La Malfa. Sono assenti per “congedo” i democristiani Fanfani, Giovanni Gioia, Piero Malvestiti e Giuseppe Vedovato.

Sul primo “centro-sinistra organico” cala così il sipario dopo duecentoquindici giorni, in un crescendo di contrasti politici e rancori personali. La delusione di Nenni è cocente: “Il governo è battuto! […] Avrei potuto nelle ultime quarantotto ore raddrizzare la situazione con qualche espediente procedurale. Non l’ho fatto perché ero da giorni convinto della [sua] inevitabile sorte […] Per parte mia stasera sono deciso […] ad accettare la battaglia nel partito per prepararci a fronteggiare su posizioni socialiste il difficile periodo che si apre. O una maggioranza “nenniana” (finalmente debbo adoperare questo odioso aggettivo), o una maggioranza azionista che vorrà dire dissolvimento del Psi. Per il resto destra e Pci sono con le spalle al muro. Diano loro un governo al paese” (25 giugno 1964). Sarà invece ancora una volta Moro a darlo, grazie a un capolavoro diplomatico maturato dopo settimane di convulse trattative. Alle tre del mattino di sabato 18 luglio 1964, dopo un’estenuante seduta durata quattordici ore, il quadripartito viene ricostituito.

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