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Marie d’Agoult (alias Daniel Stern), la mazziniana

Il Bloc Notes di Michele Magno

Karl Marx detestava visceralmente Richard Wagner, sia per il suo passato anarchico al fianco di Michail Bakunin, sia per la sua spregiudicata conversione alle tesi razziste di Arthur de Gobineau. Inoltre, lo considerava un avventuriero cinico e privo di scrupoli anche nella vita privata. Perché il “vate del Reich” non aveva esitato a sposare la sua amante Cosima Liszt, nonostante fosse stata la consorte di Hans von Bülow, suo amico devoto e finanziatore generoso. In una lettera alla figlia Jenny del 1876, quando l’autore della “Tetralogia” era all’apice della sua fama, Marx lo schernisce con sprezzante sarcasmo: “[…] questo musicista da strapazzo, con la moglie, con il cornuto Bülow, con il suocero comune Liszt, abitano a Bayreuth tutti e quattro insieme; […] si accarezzano, si abbracciano, si adorano e si divertono. Se si pensa, per di più, che Liszt porta un saio romano e che la signora Wagner è la figlia naturale che egli ha avuto da Mme d’Agoult, si può difficilmente immaginare per Offenbach un miglior libretto d’opera di un simile gruppo familiare nei suoi rapporti patriarcali”.

La Mme d’Agoult del pettegolo e moraleggiante bozzetto disegnato dal filosofo di Treviri è Marie Catherine Sophie, nata viscontessa di Flavigny a Francoforte sul Meno nel 1805. Educata in uno dei più prestigiosi monasteri francesi, aveva sposato nel 1827 -con il beneplacito del re Carlo X- il conte Charles Louis Constant d’Agoult, colonnello di cavalleria, appartenente a una delle più illustri casate della Provenza. Diventerà una delle figure femminili più brillanti e più chiacchierate dell’Ottocento europeo. Marisa Forcina, autorevole studiosa del pensiero della differenza, l’ha ricostruita nella sua brillante Introduzione alla prima edizione italiana della “Histoire de la Révolution de 1848” di Daniel Stern (Laterza, 2014).

È infatti questo lo pseudonimo maschile che Marie d’Agoult adotta nel 1840, quando “La Presse” -il quotidiano parigino fondato da Émile de Girardin- accetta alcuni suoi articoli sulle pitture dell’Hémicycle di Paul Delaroche. Ma, per nulla appagata dal mestiere di critico d’arte, nel 1841 sceglie quello di scrittrice. Pubblica due novelle, “Hérvé” e “Julien”, poi il romanzo “Nélida”, apparso sulla “Revue Indépendant” diretta da Pierre Leroux e George Sand. Quest’ultima (il cui vero nome era Amantine Dupin) aveva dato alle stampe nel 1833 il romanzo “Lélia”, in cui riaffermava i diritti della passione amorosa contro le convenzioni sociali. “Mille storie byroniane -si domandava Marie, scossa dalla sua lettura- si raccontavano su questa giovane donna che portava vestiti da uomo, fumava, e da intrepida amazzone percorreva luoghi selvaggi e foreste […]. Era un angelo, un diavolo?” (“Memoires”). Tuttavia, in “Lélia” vedeva rappresentata una inedita e positiva forma di ribellione, perché “era il grido della donna contro la tirannia dell’uomo, la contestazione del matrimonio indissolubile”. Solo più tardi chiarirà la natura ambivalente della sua ammirazione per George Sand: “Provavo per lei, come per l’abate Lamennais, qualcosa che mi attirava e qualcosa che mi allontanava; una viva ammirazione per il suo genio e una sorta di turbamento. Lei era troppo cattolica persino nella sua rivolta. Ma sviluppò in me l’amore per la natura e mi fece scrutare i segreti del mio cuore […]” (“Memoires”).

Nel 1837 George invita Daniel nella sua casa di Nohant, un piccolo borgo del dipartimento dell’Idre. Vi trascorrono insieme tre mesi, in cui le passeggiate nei boschi si alternavano a vibranti discussioni: “Volevamo riformare tutto: il teatro, la poesia, la musica, la religione, la società. Tutto ciò era febbrile; un po’ perverso, ma generoso, pieno di esaltazione non solo per l’immaginazione, ma per tutte le facoltà! L’amore del popolo, degli umili, dei sofferenti, del cristianesimo che non voleva più aspettare la vita futura” (“Memoires”). Due personalità parimenti inquiete e pugnaci, dunque, che si riconoscevano nel medesimo rifiuto dei valori borghesi imperanti nel regno di Luigi Filippo, ma costrette a coprire l’identità femminile per non precludersi l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro idee umanitarie. Pur condividendo entrambe il democratismo radicale di Robert de Lamennais, l’ideale coltivato da Marie era però più vicino a quella “civiltà della conversazione” -come l’ha definita Benedetta Craveri analizzando il Seicento femminile- in cui ciascuno diventa padrone di se stesso, in quanto riesce a governare le proprie passioni e a orientarle verso forme di cittadinanza più inclusive: “Non dipende dalle donne cambiare le leggi, ma dipenderà da loro rendere manifesta la necessità di cambiarle” (“Lettres républicanes”). Dichiarazione indubbiamente coraggiosa per una donna della prima metà dell’Ottocento, che per giunta apparteneva a una delle famiglie più ricche e influenti d’Europa. La madre, Elisabeth Bethmann, discendeva da un ramo di facoltosi banchieri in affari con gli Asburgo di Vienna. Lo zio Moritz, console di Russia a Francoforte, aveva accolto nella sua dimora Napoleone, Mme de Staël e Wolfgang Goethe. Quando la piccola Flavigny fu presentata al grande drammaturgo, ebbe quasi l’impressione di aver ricevuto dalla sua mano magnetica -come confesserà- “la presenza di una benedizione, una promessa tutelare” (“Mes souvenirs”).

Rientrata con i genitori a Parigi dall’esilio in Germania, a cui erano stati costretti dalla rivoluzione del 1789, dopo il matrimonio con il conte d’Agoult Marie preferisce organizzare concerti nella sua villa, piuttosto che adeguarsi alle abitudini dell’aristocrazia di corte. Le descriverà così: “Sei mesi nei castelli, sei mesi a Parigi; il ballo a Carnevale, il concerto o il sermone in Quaresima, i matrimoni dopo Pasqua, poco teatro, viaggi mai, il gioco delle carte sempre” (“Mes souvenirs”). Era allora di moda l’opera lirica italiana, e Gioacchino Rossini – più di Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti- era il compositore più apprezzato. Proprio Rossini, per millecinquecento franchi, si incaricava del programma e della sua esecuzione con un cast di prim’ordine, tra cui l’acclamato interprete del “Barbiere di Siviglia” Felice Pellegrini. Le visite di musicisti come Frédéric Chopin, Hector Berlioz, Franz Schubert erano assidue. Ma si interromperanno nel 1835, quando Marie si invaghisce di un pianista capace di virtuosismi straordinari, Franz Liszt. La contessa d’Agoult lascia il marito e decide di cambiare il suo destino.

Una scelta tormentata, e vissuta non senza un un certo romanticismo letterario: “Si apriva davanti a me un nuovo infinito, a volte luminoso, a volte oscuro, sempre mutevole, in cui il mio pensiero si tuffava sperduto” (“Memoires”). Ai suoi occhi, Liszt -futuro apostolo dell’arte totale wagneriana- incarnava la ricerca incessante del bello e del sublime. Inizia con lui una relazione intensa, cementata da tre figli e da infaticabili vagabondaggi in Svizzera e in Italia: Ginevra, Lugano, le isole Borromee sul Lago Maggiore, Firenze, Milano con “casa Ricordi che offriva la tipica ospitalità italiana: vetture, terrazze, case di campagna, tutto era a disposizione del ‘Paganini del pianoforte’ ” (“Memoires”). A Ginevra Marie traduce Kant, Fichte e Schelling, e -mentre studiava Spinoza e Marco Aurelio- ne discuteva con lo storico Sismonde de Sismondi, il filologo Pictet e il poeta Louis de Rocheaud, che diverrà suo confidente e spasimante furtivo. A Firenze frequenta la casa di Hortense Allart, l’erede spirituale di Mme de Staël, paladina del femminismo e dell’infedeltà coniugale.

In crisi il legame con Liszt (lo definirà un “Don Giovanni parvenu”), Marie rientra a Parigi verso la fine del 1839. Compra un elegante appartamento a Faubourg Saint-Honoré. Tappezza le sue pareti con i ritratti dei personaggi illustri che più ammirava: Goethe, George Byron, René de Chateaubriand, Adam Mickiewicz,Lamennais. Presto la casa si gremisce di corteggiatori vecchi e nuovi: Alfred de Vigny, Charles Augustin Sainte-Beuve, Eugène Sue, Bernard Potocki. Qualche volta si univa a loro la principessa Cristina di Belgioioso, altra nobile separata e di sentimenti progressisti che Marie chiamava la “commediante”, per il senso di malvagità e di falsità che le trasmetteva. Comincia a scrivere una delle sue opere più mature: “Essai sur la liberté” (che vedrà la luce nel 1847). Un saggio sulla libertà intesa come “l’obbedienza volontaria dello spirito a ciò che i devoti chiamano volontà di Dio e i filosofi chiamano l’ordine immutabile delle cose.Concezione spinoziana, stoica, goethiana. Cioè, se si vuole, molto poco francese”. Un saggio sulla libertà che era anche un duro atto d’accusa contro le legislazioni e i costumi che nel corso dei secoli avevano regolato i rapporti tra i sessi, riducendo la donna a “serva utile e schiava graziosa”. Pertanto, ammoniva, se essa mostrava ancora “spirito di vendetta e di menzogna, una volubilità imperiosa, gusti frivoli e capricci crudeli, tra i quali soprattutto la perfidia, è colpa non solo delle leggi, ma anche di tutti gli uomini di pensiero e di azione che [ …] non si sono degnati di riflettere su una questione così importante”.

Nella “Storia della rivoluzione del 1848” (che sarà pubblicata nel 1862), Marie attribuisce alla borghesia la responsabilità di ostacolare quel rinnovamento sociale e delle istituzioni che avrebbe consentito alle donne e ai proletari di accedere all’istruzione e a un lavoro dignitoso. Difende così le ragioni -anche morali- dell’associazionismo operaio di Louis Blanc, mentre attacca il conservatorismo di Francois Guizot come l’espressione più subdola di un potere di classe ancorato ai propri privilegi, teso a frenare l’ascesa dei ceti più umili. Ma, come teneva a precisare, la sua posizione politica era lontana sia dalle utopie socialiste, che volevano pianificare la produzione e il consumo; sia dall’emancipazionismo sansimoniano, che faceva della donna una sorta di sacerdotessa di una mistica purificazione della società. Il suo interesse, invece, era rivolto ai concreti mutamenti nella sfera familiare e nell’ordinamento giuridico, resi possibili dall’abolizione dell’eredità e dell’indissolubilità del matrimonio. È del 1862 anche la lettera a una immaginaria Marcella, dal titolo “Florence e Tourin”. Si tratta, in realtà, di un vero e proprio pamphlet politico. Daniel Stern vi denuncia la scomparsa dello spirito repubblicano nella città toscana, dove lo spirito borghese trionfante aveva contribuito a corrompere le coscienze dando “pane alla plebe e capestro ai nobili”. A suo giudizio, comunque, un movimento rivoluzionario non sarebbe stato capace di riaccendere la fiaccola della libertà. Solo il riformismo di uno statista come il conte di Cavour poteva essere efficace, come lo era stato nel regno sabaudo, perché appoggiato a un patriottismo illuminato, al giusto sentire delle popolazioni e alla perspicacia di un partito innovatore che conferiva stabilità al potere.

Sono valutazioni che testimoniano una palpitante partecipazione di Marie d’Agoult alle vicende del nostro Risorgimento. Partecipazione che non le impedisce di stringere un duraturo rapporto di amicizia anche con uno dei principali antagonisti di Cavour, Giuseppe Mazzini. Già nel gennaio 1861, in una missiva inviata al romanziere Charles Dollfus, avverte che da Nizza si accingeva “a piombare a Genova in pieno focolaio mazziniano”. Da lì si sarebbe recata a Torino per l’apertura del Parlamento. Aggiunge che avrebbe desiderato complimentarsi con Auguste Nefftzer, fresco direttore di “Temps”, un quotidiano di tendenze moderate finanziato da un gruppo di industriali alsaziani: ” [ …] dategli tutti i miei auguri per il suo giornale, a condizione che sostenga lo sforzo dell’Italia [ …] perché fuori dell’Italia non c’è salvezza”.

Da Londra, nel settembre 1864 Mazzini le scrive: “Sto leggendo la ‘Storia della rivoluzione del 1848’. Per la sua rara imparzialità, per la valutazione degli uomini, per l’intelligenza delle cose […] e per il sincero amore che vi si respira, è il miglior lavoro che io abbia visto su questo tema. Solo che io non sono indulgente come voi sul socialismo […]. Ora mi classificherete tra i repubblicani borghesi e avreste torto […]. Se io sono amato da qualche parte è tra gli operai italiani. Ma è dal punto di vista del Dovere che parlo a loro, in nome della Legge Morale da praticare […] “. Nonostante queste divergenze, il confronto a distanza sulla “religione civile” dell’esule genovese si svilupperà attraverso un febbrile scambio epistolare. Nel maggio 1865, Marie gli spedisce questa minuscola quanto ironica autobiografia: “Sì, mia madre era tedesca; era figlia di un banchiere di Francoforte, che mio padre sposò durante l’emigrazione. Mio padre era stato paggio di Maria Antonietta, serviva nell’armata dei Principi e fu fino al 1815 in rapporto con i Vandeani, che cospiravano contro Bonaparte. Mia madre, da protestante che era alla nascita, si era convertita al cattolicesimo. La rivoluzione del 1830 mi ha impedito di essere dama d’onore della duchessa d’Angoulême; ed eccomi repubblicana, un pochino panteista e in corrispondenza con voi! Così va il mondo”.

In effetti, era una repubblicana circondata da una schiera di giovani e ardenti repubblicani, gravitanti intorno alla “Revue Indépendante”, che si erano avvicinati a lei dopo aver letto le sue riflessioni sul tema della libertà. Tutti frequentavano la piccola costruzione in fondo ai Campi Elisi, che aveva acquistato poco prima del colpo di stato del 2 dicembre 1851. “Abbazia al Bosco della democrazia”, era chiamata dai giornali nelle loro cronache mondane. Un appellativo che alludeva simbolicamente al prestigio ormai raggiunto da Marie d’Agoult, alias Daniel Stern, nell’élite culturale francese e d’oltralpe. Quello che sarà il suo ultimo salotto diventa così un luogo di incontro ambito da politici, generali, storici, letterati. Le sue “Esquisses morales”, riedite nel 1856, riceveranno lì una calorosa accoglienza e contribuiranno a promuovere il dibattito sul ruolo delle donne e degli artisti nella società. Perché non solo le donne, ma anche gli artisti “vivono oggi una relazione falsa con una società dove tutto si fonda sul calcolo. Da qui un malessere sentito e condiviso che li accomuna. Si lodano gli artisti, si adulano le donne, soprattutto li si paga, ma non li si onora seriamente”.

Anche per questo motivo Marie sentiva una forte affinità elettiva con le figure femminili che si erano battute con più audacia per infrangere i tabù del loro tempo. Tra tutte, con la figura di Germaine de Staël, che “dovette lottare contro le canzonature di uomini eminenti, ma essi sono rimasti indietro e lei ha trionfato. Non perché, come è stato detto, ha cessato di essere donna, ma perché […] la sua influenza è stata essenzialmente femminile, fatta di bontà, di simpatia, di devozione. Il suo genio produttivo ha avuto il carattere della maternità nell’ordine intellettuale […]”.
Nelle pagine delle “Mémoires” intitolate “Mes respects et mes curiosités”, riprenderà queste considerazioni spiegando quale era stata, in fondo, la stella polare (in tedesco “stern” significa stella) della sua esistenza: “Il movente che mi ha spinto verso uomini di sapere e di azione, di cui ho intuito, riconosciuto, qualche volta anche suscitato il merito e le ambizioni, è stato un rispetto appassionato del cuore e della coscienza che voleva onorare in loro la grandezza reale o presunta, che si augurava di associarsi a disegni generosi e di servirli […]. Curiosità per tutto quello che mi sembrava nuovo, singolare. Rispetto per tutto quello che mi sembrava bello, vero, eroico. Sono state queste le due due inclinazioni più pronunciate, più chiare della mia vita di relazione”. Questa vita si spegnerà a Parigi, il 5 marzo 1876.

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