skip to Main Content

Leonardo e Machiavelli, vite incrociate

Il Bloc Notes di Michele Magno

Palazzo ducale di Urbino, fine giugno 1502: due personaggi illustri si vedono per la prima volta. Sono ospiti di Cesare Borgia, nuovo signore della città. Il primo è Niccolò Machiavelli, segretario della Cancelleria fiorentina. Il secondo è Leonardo da Vinci, inventore e artista dalla fama già sconfinata. Entrambi non faranno mai menzione di questo incontro. Perché? Su questo enigma torna una ricerca dello storico Patrick Boucheron (“Leonardo e Machiavelli. Vite incrociate”, Viella, 2014). Diversi studiosi hanno provato a ricostruire i rapporti intercorsi tra i due geni del Rinascimento, ma con scarsi risultati. Certamente per la penuria di testimonianze dirette, ma anche per una ragione più di fondo. Segnalata da Eugenio Garin nel 1975, l’ha riassunta così Carlo Ginzburg: “Le presunte affinità tra Machiavelli e Galileo hanno oscurato quelle, molto più degne di considerazione, con Leonardo” (“Occhiacci di legno”, Feltrinelli, 1998). In effetti, dalla metà dell’Ottocento l’espressione “Machiavelli, il Galileo della politica” è assurta a principio esplicativo della modernità. Forse tra Leonardo e Machiavelli ci sono stati sentimenti di amicizia e di stima, forse di gelosia e indifferenza: non possiamo dirlo con plausibile approssimazione. Ma innegabili e stretti sono i legami che uniscono i loro mondi, i loro sogni, le loro ambizioni.

Cominciamo da Leonardo, universalmente riconosciuto come il più multiforme ingegno della sua epoca. Quando arriva a Milano nel 1482 con il patrocinio di Lorenzo il Magnifico (secondo Giorgio Vasari), consegna a Ludovico il Moro una “lettera d’impiego” di ben nove paragrafi. Tra i progetti che propone al duca, spicca quello di “dare opera al cavallo di bronzo che sarà gloria immortale et aeterno onore de la felice memoria del Signore vostro padre e de la inclyta casa Sforzesca”. Escogita a tal fine una tecnica originale di fusione -con colata unica- del monumento equestre di Francesco Sforza. Dopo una dozzina di anni, il suo impegno risulterà vano. Nel 1494 il metallo scelto per celebrare il condottiero viene utilizzato per la fabbrica di bombarde, che però non riusciranno a fermare le armate del re di Francia. Il 14 settembre 1499 Luigi XII entra trionfalmente nel capoluogo lombardo. Leonardo commenta con freddezza la capitolazione di Ludovico il Moro: “Il Duca [ha] perso lo stato, e la roba e la libertà, e nessuna sua opera si finì per lui”. Del monumento equestre restava un ammasso di cera mista a creta, dove egli voleva il bronzo: un gigante di argilla frantumato dagli artiglieri guasconi, che pure si precipiteranno a contemplare il Cenacolo nel convento di Santa Maria delle Grazie.

Prima di abbandonare Milano, il maestro è costretto a vendere buona parte della sua biblioteca. Egli è un “omo senza lettere” che non ha mai smesso di leggere. Con l’orgoglio dell’autodidatta, nei suoi quaderni vantava la superiorità delle arti visive su quella “pittura cieca” che è la poesia: “O scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno?”. Tuttavia, non mancava di lanciare ai tecnici che ignorano i saperi fondamentali su cui poggia la loro arte strali acuminati: “Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia, son come ‘l nocchieri ch’entra in naviglio sanza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada”. Leonardo rimarrà comunque sempre fedele a ciò che aveva preteso di essere: un discepolo dell’esperienza. Il suo verbo preferito era imparare: “Impara la tempera delle carnagioni. Impara a disolvere la lacca gommata”. E, poiché era avidamente curioso di ogni novità: “Piglia di Gian di Paris il modo de colorire a secco, el modo del sale bianco e del fare le carte inpastate”.

Gian di Paris era Jean Perréal, pittore ufficiale di Luigi XII e grande regista dei fasti del monarca dei Valois-Orléans. Un ruolo analogo a quello da lui svolto con Ludovico il Moro. Musica,costumi, decorazioni, scenografie: niente sfuggiva alla sua vigile attenzione. Le sue macchine, quando non erano concepite per scopi bellici, garantivano mirabolanti effetti speciali sui palcoscenici delle feste di corte. Memorabile lo spettacolo cosmogonico da lui allestito nel 1489 per le nozze di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, con i cortigiani-Pianeti orbitanti intorno al principe-Sole. Dopo la conclusione della campagna militare, il conte di Ligny organizza una spedizione nel regno di Napoli per rivendicare i diritti feudali della moglie, la principessa di Altamura. Leonardo è tentato dall’avventura. Così recita la prima riga del biglietto su cui memorizza i preparativi della partenza: “Truova ingil e dilli che tu l’aspetti amorra e che tu andrai con seco ilopanna”. Non è un rebus, ma uno scritto speculare. Letti al contrario, infatti, ingil diventa “ligni”, amorra “a roma”, ilopanna “a napoli”. Ossia, “Vai a trovare Ligny e digli che lo aspetterai a Roma e lo accompagnerai a Napoli”.

Purtroppo per lui, il conte rinuncia all’impresa e nella primavera del 1500 affianca le milizie di Gian Giacomo Trivulzio e del visconte di Thouars, che si apprestavano a reprimere l’insurrezione di Ludovico il Moro. Tradito dai mercenari svizzeri, il duca è catturato il 10 aprile a Novara. Trascinato come un trofeo a Lione, viene imprigionato nella torre di Loches fino al resto dei suoi giorni. L’accaduto turba Machiavelli, che si accingeva a una delicata missione diplomatica in Francia. Nel maggio 1500, Luigi XII aveva accordato alla repubblica fiorentina il suo aiuto per sedare la ribellione di Pisa. Il suo assedio fallisce, anche per l’indisciplina e l’indolenza degli ausiliari elvetici dell’armata francese guidata da Charles de Beaumont. Gli ausiliari reclamano ugualmente la mercede pattuita. Firenze si rifiuta di pagarli, e scarica la responsabilità dello scacco sull’alleato. È questa la linea che il segretario della Cancelleria ha il compito di far valere. Insieme a Francesco Della Casa, anch’egli legato straordinario, da luglio a dicembre bracca come un segugio gli itineranti consiglieri del sovrano soprannominato “Père du Peuple”. Quando riesce ad ottenere qualche colloquio, essi non sembrano curarsi molto dei suoi argomenti e delle sue giustificazioni.

La delusione di Machiavelli è cocente. In una missiva inviata ai Dieci di Balìa, i magistrati che sovrintendevano agli affari di guerra (balìa significa autorità, potere), li avverte che i ministri che gli avevano concesso udienza “reputanvi pro nichilo” (una nullità). Tredici anni dopo, Niccolò si prenderà la sua rivincita con un libro. Nel terzo capitolo del “Principe”, infatti, rovescia l’umiliazione subita in un perentorio atto di accusa: “[…] E di questa materia parlai a Nantes con Roano [Georges d’Amboise, arcivescovo di Rouen], quando il Valentino (che così volgarmente era chiamato Cesare Borgia, figliuolo di Papa Alessandro), occupava la Romagna; perché dicendomi il Cardinale Roano che gl’Italiani non s’intendevano della guerra, io risposi che i Francesi non s’intendevano dello Stato”.

Nell’aprile 1500 Leonardo rientra a Firenze, in attesa di un mecenate che gli restituisse l’antica posizione sociale. Non lo aveva trovato nella Mantova colta e illuminata di Isabella d’Este. Né l’aveva trovato a Venezia, dove svettava la Scuola di Rialto, una corporazione di umanisti eruditi conosciuti tramite un suo caro amico, il matematico Luca Pacioli. È però lì che scopre un ambiente che ignorava, quello dei librai, degli incisori e dei tipografi che facevano della Serenissima la capitale europea della stampa. Ed è lì che apprende una nuova tecnica: l’acquaforte, attraverso cui la lastra di rame corrosa dall’acido permetteva un’incisione assai più netta di quella ottenuta con la xilografia. Il suo soggiorno veneziano si conclude quando, allarmato dall’avanzata dei turchi del sultano Bayezid II, il Senato lo consulta sul modo di fortificare le sponde dell’Isonzo.

Leonardo non si tira indietro. Si reca in Friuli per sviluppare un sistema di dighe mobili, ma si rende immediatamente conto di come venivano considerati gli ingegneri: tecnici sottomessi alla volontà politica dei commissari di governo. Invece, accetta senza riserve l’incarico che il Valentino gli offre nella primavera del 1502, quello di mappare i territori da lui conquistati proprio come architetto e ingegnere militare. Del resto, anche Machiavelli ne era ormai convinto: “Questo signore [Cesare Borgia] è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva; […] ha cappati e’ migliori uomini d’Italia […]” (Lettera ai Dieci di Balìa, 26 giugno 1502).

Nella seconda metà del 1502 Leonardo è a Imola. C’è anche Machiavelli. L’uno per ispezionare il borgo, misurare vie e edifici, disegnare piante, scoprire falle. L’altro per decifrare il gioco del “principe secretissimo”. Sicuramente si parlano, ma delle loro conversazioni c’è solo un vago accenno in alcune lettere di Niccolò, laddove riferisce di informazioni avute da “uno dei nostri”, un fiorentino al servizio di Cesare Borgia che “sa le cose di questo Signore”. Il ritratto di un Leonardo doppiogiochista non è inverosimile. Tanto più se si considera che nel marzo 1503 si separa dal padrone della Romagna e rientra nuovamente a Firenze. Probabilmente aveva intuito che la parabola discendente del suo protettore era iniziata. Il mese prima Cesare Borgia aveva cercato di avvicinarsi alla monarchia cattolica spagnola. La manovra incrina seriamente le relazioni con la Francia e lo indebolisce politicamente. Il 18 agosto muore papa Alessandro VI. Il suo successore, Giulio II, non esita a incarcerarlo. Quattro anni dopo, fiaccato dalla cattiva sorte e dalle malattie, cadrà in un’imboscata mortale a Viana, in Navarra.

Registri della Signoria, 26 luglio 1503: “Andata di Leonardo al Campo sotto Pisa, cinquanta soldi”. Erano il compenso per raggiungere l’accampamento delle truppe fiorentine che assediavano Pisa. Oggetto del viaggio era l’Arno. Leonardo deve studiare il modo di deviarne il corso “per levallo de lito suo”. Far uscire l’Arno dal suo letto, risvegliare la furia del fiume per annegare i nemici e poi riversarlo più lontano, nel mare. Machiavelli è un fanatico fautore del progetto. Durante quindici mesi, dal luglio 1503 all’ottobre 1504, redige centinaia di note per persuadere gli increduli e incoraggiare i favorevoli. In questa circostanza non mancano gli indizi di una collaborazione tra i due, sebbene con prospettive diverse. Correggendo il corso dell’acqua, incanalando la forza del fiume, Leonardo spera di dispensare pace e prosperità: “Il canale bonificherà il paese, e Prato, Pistoia e Pisa insieme con Firenze faranno l’anno di meglio di duecento milla ducati”.

Machiavelli vuole invece piegare definitivamente l’ostinata resistenza dell’orgoglioso comune marinaro, governato da un’aristocrazia di cavalieri e di armatori. Nella sua “Storia d’Italia” Francesco Guicciardini dipinge le due facce del conflitto: abitudinaria e selvaggia. Nel 1502 i fiorentini “deliberarono dare il guasto de’ grani e delle biade al contado di Pisa”, e lo stesso nel 1503. Quanto al 1504, annota con disincanto: “Così essendosi fermate le guerre per tutte l’altre parti d’Italia, non cessorono per ciò, al principio di quella state, secondo il consueto, l’armi de’ fiorentini contro a’ pisani”. “Secondo il consueto”: è proprio questo che teme Machiavelli, cioè una violenza interminabile che mina le basi della repubblica. Per questo teorizza “battaglie corte e grosse”, in cui l’assalto improvviso è decisivo; e in cui è la Fortuna che deve armare il braccio del vincitore. Ma nel settembre 1504 sarà proprio la Fortuna a girargli le spalle. L’Arno non cessava di gonfiarsi. Quando fuoriesce dal suo alveo, travolge l’argine del canale e riprende il suo corso originario.

Lo sconcerto è enorme, e si fa sentire tra gli ottimati e i popolani del Consiglio Maggiore. Le dighe avevano ceduto, e la stabilità politica di Firenze era ora fragile come il terreno smosso dagli sterratori del Valdarno. Per risollevare la fiducia dei cittadini nei confronti della repubblica, il gonfaloniere Pier Soderini commissiona a Leonardo l’esecuzione di un’opera che ne esaltasse le vittorie militari. La scelta cade sulla battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440. Nella contrada aretina le milizie fiorentine di Giovanpaolo Orsini avevano sconfitto quelle milanesi di Niccolò Piccinino, bloccando così le mire espansionistiche dei Visconti. Machiavelli è a Palazzo Vecchio mentre il maestro negozia il suo contratto, e non si può escludere che abbia appogiato la sua candidatura. Nel memorandum del maggio 1504, che integrava l’ingaggio iniziale, viene concordato l’episodio centrale dell’opera (che sarà l’unico completato da Leonardo): “la lotta per lo stendardo”, in cui i cavalieri di Orsini si impadroniscono del vessillo rosso visconteo e del drappo bianco con il leopardo di Piccinino.

Più tardi, nelle “Istorie fiorentine” (1520-1525) Machiavelli ridicolizzerà con cinismo la memoria civica di quello scontro leggendario: “E in tanta rotta e in sì gran zuffa […] non vi morì altri che un uomo; il quale, non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò […]”. Un racconto ironico che si contrapponeva alla raffigurazione leonardesca della battaglia, intenta a coglierne tutto il furore e tutto il tumulto, con il terrore che dilata le narici dei cavalli e contorce il viso degli uomini. Del dipinto murale nel Salone dei Cinquecento oggi non vediamo quasi nulla, mentre del suo cantiere sappiamo quasi tutto. Dopo la posa del primo ponteggio nel 1503, il maestro disegna senza sosta, intorno a lui si affacendano falegnami che montano l’impalcatura, muratori che puliscono le pareti, gli operai che trasportano i materiali. Giornalmente, gli ufficiali contabili di Palazzo Vecchio registrano con scrupolo tutte le spese ordinate da Benedetto di Luca Buchi, che coordina le operazioni.

Nell’estate del 1504 la Signoria decide di affidare l’altra grande parete del Salone a un artista il cui nome era ormai sulla bocca di tutti: Michele Agnolo di Ludovico Buonarroti, detto Michelangelo. Doveva rappresentare un’altra battaglia, ingaggiata dai fiorentini contro i pisani a Cascina, il 28 luglio 1364. Come quella di Anghiari, alludeva alla supremazia della fazione guelfa, sostenitrice irriducibile dell’alleanza tra Chiesa e borghesia commerciale e finanziaria. Anche Michelangelo lascerà incompiuta la sua battaglia, ma non la statua di David, che diventerà pretesto di un vivace dibattito sulle arti visive. Contraddicendo in qualche misura il suo passato, Leonardo difendeva la posizione tradizionale del primato del disegno: la pittura è l’arte dell’ideale, mentre la scultura si compromette con la materia. Se si guarda lo scultore, “geme per lo sforzo, puzza sotto lo strato di sudore misto ai frammenti della pietra che percuote, con la faccia impastata, e tutto infarinato di polvere di marmo che pare un fornaio, e coperto di minute scaglie, che pare gli sia fioccato addosso”.

Il maestro si schermisce come può quando viene interpellato per decidere il luogo in cui collocare il David. Sarebbe più decoroso sistemare la statua nella Loggia, in un punto leggermente defilato rispetto al Palazzo “in modo che non guasti le cerimonie delli ufficiali”, suggerisce. Non verrà ascoltato: il 14 maggio 1504, una specie di processione religiosa accompagna il trasporto dalla bottega a Piazza della Signoria del colosso di cinque tonnellate, la cui nudità arrogante faceva arrossire le donne che gli passavano davanti. Machiavelli, che amava le oscenità di una certa letteratura toscana, scrive nello stesso anno i “Capitoli per una compagnia di piacere”: una salace parodia degli statuti di una confraternita di piaceri, in cui damigelle indocili sono costrette ad ammirare il David di Michelangelo con gli occhiali…

Dopo la “Battaglia di Anghiari” le vite di Leonardo e Machiavelli non si sono più incrociate, se non in maniera furtiva. Il figlio illegittimo di ser Piero, notaio in Vinci, continuerà a viaggiare in Italia e in Francia, sempre alla ricerca di un protettore potente. Nel 1516 il re Francesco I lo accoglie nel castello di Amboise. Vi accatasta strumenti di ogni ogni tipo e quadri da ultimare. Aveva firmato altri contratti: la “Vergine delle rocce” a Milano, il “San Giovanni Battista” a Roma. Era ancora ossessionato dal volo degli uccelli. Le cose da fare erano tante: scrivere un trattato di anatomia, disegnare il diluvio, comprendere l’ombra che fugge negli specchi. Ma ora della natura poteva osservare solo il paesaggio dolce e sereno della valle della Loira. Muore il 2 maggio 1519, all’età di sessantasette anni.

Anche il figlio di Bernardo di Buoninsegna, dottore in legge, continuerà a viaggiare. Roma, Perugia e Imola, sulle tracce di papa Giulio II; Mantova, Verona e poi in Germania con l’imperatore Massimiliano. L’8 giugno 1509 è a Pisa, finalmente sottomessa non grazie alla deviazione dell’Arno, bensì all’ardore della milizia civica che aveva mobilitato. Ma il regime di Pier Soderini era agli sgoccioli. La caduta del gonfaloniere nell’estate 1512 segna la fine anche della sua carriera politica. Viene destituito, imprigionato, torturato. Viene poi accusato di complottare contro il ritorno dei Medici. Iniziano gli anni dell’esilio e dell’inazione, del rancore e del contegno, in cui scrive i suoi capolavori. Muore nella sua Firenze il 21 giugno 1527, all’età di cinquantotto anni.

Back To Top