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C’era una volta la Prima Repubblica. De Gasperi e la “legge truffa”

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Immaginate una legge elettorale che assegni il 65 per cento dei seggi alla coalizione che raggiunga il 50 per cento più uno dei voti validi espressi. Sarebbe stata senza dubbio meno esposta del “Porcellum” ai vizi di legittimità costituzionale denunciati dai giudici della Consulta. Sessant’anni fa, al contrario, quella legge fu considerata un imbroglio e divenne teatro di una “patria battaglia” che appartiene alle mitologie della storia repubblicana. Ma, come per tutte le mitologie, il suo nucleo di verità è controverso.

La “legge truffa” del 1953 (la definizione si deve forse a Piero Calamandrei) è stata infatti interpretata sia come un cupo episodio della restaurazione postbellica, sia come il tentativo di garantire una governabilità messa a repentaglio dalla frammentazione partitica. In ogni caso, come suggerisce la lettura di un avvincente volume di Maria Serena Piretti (“La legge truffa”,il Mulino), per ricostruirne la genesi con il dovuto distacco non si può prescindere dal clima politico interno e dal quadro internazionale in cui essa matura.

Dopo la vittoria del 1948, la Dc navigava in acque tutt’altro che tranquille. Aveva conosciuto una vivace dialettica interna già al congresso di Venezia (giugno 1949), e la domanda di Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira di aprire un “terzo tempo sociale” non poteva essere troppo a lungo sottovalutata. È grazie anche a questa domanda che vede la luce una non trascurabile stagione di riforme, dalla revisione dei patti agrari alla creazione della Cassa per il Mezzogiorno, fino al varo dei piani di edilizia popolare patrocinati da Amintore Fanfani. Il suo avvio, però, da un lato incontra vivaci resistenze nella destra liberale, dall’altro lato coesiste con una linea monetarista -promossa da Giuseppe Pella- energicamente osteggiata dalle componenti riformiste del governo.

Alcide De Gasperi, insomma, deve fare i conti con una Dc e con alleati divisi e inquieti, peraltro in una fase in cui le tensioni tra i due blocchi -inasprite dallo spettro del conflitto coreano- si riverberano pesantemente sul nostro paese. Lo stato di allerta diventa altissimo, il timore di una terza guerra mondiale è tangibile, le sue ripercussioni economiche aggravano una situazione già problematica. Solo nel 1956, dopo la rivolta d’Ungheria e la crisi di Suez, si percepirà che l’assetto mondiale nato dal crollo del nazifascismo era più solido di quanto non si potesse pronosticare.

È in questo contesto che si colloca il disegno di “democrazia protetta” di De Gasperi. Per usare la sua celebre metafora dell’autobus, lo stato non doveva più essere solo il controllore che si occupa unicamente di timbrare i biglietti dei passeggeri, ma doveva decidere chi poteva e chi non poteva salirvi. Nella traduzione di Luigi Sturzo : “Altro è il rispetto dell’avversario, nell’osservanza dei diritti e dei doveri, altro è aprire la porta di casa a chi non ha diritto di entrarvi, per una cortesia che non sarà mai contraccambiata; peggio, col dubbio, anzi la certezza, che si tratta di un nemico dello stato democratico” (“La Via”, 15 luglio 1950). La seconda metà della legislatura, quindi, si dedica al varo di una serie di provvedimenti volti a colpire le azioni reputate eversive della sinistra e della destra, e culmina nella legge maggioritaria che avrebbe dovuto blindare la formula centrista.

Il cammino della riforma elettorale inizia alla vigilia del rinnovo dei consigli comunali e provinciali. Nel febbraio 1951 il ministro degli Interni Mario Scelba propone di introdurre un premio -pari a due terzi dei seggi- a favore della lista che ottenga la maggioranza relativa, ferma restando la ripartizione proporzionale dei seggi residui tra le altre liste concorrenti. La Commissione incaricata di esaminare il progetto opta invece per un sistema misto senza premio per i consigli provinciali, mentre per quelli comunali contempla la facoltà di un collegamento tra liste diverse per guadagnare il premio di maggioranza.

Il turno elettorale viene sdoppiato: nella primavera del 1951 votano le regioni del nord, l’anno seguente quelle meridionali. Dalle urne esce un risultato inatteso: il consenso raccolto da socialcomunisti, monarchici e missini supera quello dei democristiani e repubblicani al governo (a cui non partecipavano il Psdi e il Pli). Il dato è clamoroso e allarma ambasciata americana e ambienti vaticani, i quali rimproverano al presidente del Consiglio il veto posto all’auspicato accordo con la destra monarchica di Achille Lauro. “Quando il turco è alle porte di Costantinopoli -chiosa “Civiltà Cattolica”- non giovano le schermaglie bizantine […] Oggi l’invasore non sta solo alle porte, ma ha già i suoi fedeli e numerosi emissari dentro la città, in cui agevolmente scorrazza e si prepara a dar la scalata alla vera pace, alla nostra libertà, a quanto abbiamo di più caro e sacro sulla terra” (n.103,1952).

Non essendoci ovviamente niente di più caro alla chiesa della città di Roma, sede del pontificato e cuore della cristianità, la conquista del Campidoglio diventa il simbolo della campagna elettorale del 1952, che vede la discesa in campo di Sturzo. “L’operazione Sturzo” -come viene chiamata- dura lo spazio di un mattino: incontra subito forti contrasti e viene frettolosamente archiviata. Annota Pietro Nenni nel suo diario il 23 aprile 1952: “Nel pomeriggio alla Camera [Scelba] mi ha confermato il ritiro della proposta Sturzo. ‘Se tieni alla libertà’, mi ha detto, ‘adesso dovresti augurarci un buon successo elettorale’. Non posso mica votare per la Dc!”. Ma è proprio il mancato successo, come ricorderà Giulio Andreotti (“De Gasperi e il suo tempo”, Mondadori, 1974), che spinge la Dc a proporre l’estensione del maggioritario alle elezioni politiche, rafforzato con un rigido sistema di apparentamento tra i partiti di centro vincolante a livello nazionale.

L’abbandono del proporzionale viene deliberato nel Consiglio nazionale di Anzio (21-24 giugno 1952), pur con qualche tentennamento fra i “dossettiani senza Dossetti” (l’esperienza del gruppo di “Cronache Sociali” era di fatto terminata sei mesi prima). I mentori della svolta sono De Gasperi, il segretario del partito Guido Gonella e Paolo Emilio Taviani, che ne rivendica addirittura la paternità: “Ne sono stato fautore fin dall’inizio […] C’era un obiettivo preciso: catalizzare la lotta fra il centro e la sinistra e sbarrare la strada alla destra che manteneva preoccupanti tracce di fascismo” (“Politica e memoria d’uomo”, Vallecchi, 1974).

Non la pensa così Giovanni Gronchi, che critica “il ricorso ad artifici legislativi che violentano le norme e lo spirito della Costituzione” (“Una politica sociale. Scritti e discorsi scelti 1948-1956”, il Mulino, 1962). Anche Sturzo, che del resto non aveva mai nascosto le sue simpatie per il sistema uninominale, condanna “quel premio di maggioranza, che il fascismo volle come suo primo atto elettorale a cui fece seguito la soppressione, prima parziale poi completa, del regime rappresentativo” (“Il Popolo”, 29 giugno 1952). Ribadisce pertanto la sua ostilità verso ogni possibile commistione con la “legge Acerbo” del 1923 ( due terzi dei seggi col 25 per cento dei suffragi), cui si era opposto con grande fermezza fino a mettere in gioco l’unità del Partito popolare.

Dopo la riunione di Anzio, socialdemocratici, repubblicani e liberali avviano con la Dc una trattativa serrata che verte su un punto cruciale: come ripartire il premio di maggioranza tra le forze politiche collegate. Psdi, Pri e Pli subordinano il proprio appoggio alla certezza di non essere penalizzati nel gioco della distribuzione dei seggi. In agosto, durante la vacanza trentina, De Gasperi incontra i loro rappresentanti per un ultimo sondaggio e poi pronuncia un importante discorso a Predappio, dove spicca il suo ruolo di vero regista dell’operazione: ” Ci sono […] due forze periferiche, una a destra e una a sinistra, che sono esse stesse incapaci di accordarsi sui principi di governo. [ …] Sommate insieme queste forze sono però capaci di impedire che si faccia un governo. [ …] Questa è la situazione di fatto: la somma di tali forze negative ci costringe a pensare alla riforma elettorale [ …]”.

Il 18 ottobre il Consiglio dei ministri approva il progetto di legge. La ripartizione dei seggi tra maggioranza e minoranza viene fissata nelle quote di 380 contro 209 (più un seggio spettante al collegio valdostano). Il 15 novembre la Dc e le tre formazioni laiche firmano l’accordo di collegamento: nasce il “polipartito di governo”.Il 7 dicembre inizia alla Camera il breve, ma burrascoso iter parlamentate della legge. E inizia con un colpo basso del relatore democristiano Afonso Tesauro, il quale rievoca una vecchia posizione dei socialisti. “In linea generale -aveva sostenuto Nenni- vale poi l’osservazione che la proporzionale è per sua natura conservatrice: frena, non accelera un processo politico [ …]” (“Avanti!”, 22 aprile 1945).
Il dibattito si surriscalda. Giorgio Almirante si scaglia contro il meccanismo elettorale congegnato per discriminare la destra. Palmiro Togliatti e Francesco De Martino cercano di dimostrare come la fede proporzionalista sia il cemento della nazione voluto dai costituenti. Aldo Moro, nell’intervento di rigetto delle eccezioni sollevate, addebita la necessità della riforma elettorale alle opposizioni, le quali “hanno interrotto il dialogo democratico e introdotto un significato di democrazia che sostanzialmente contrasta con un autentico ideale democratico”.

Nel suo “Taccuino della battaglia contro la legge truffa”, Maurizio Ferrara commenta così la discussione: ” [ Essa] ha dimostrato: 1) Che questa legge è contro la Costituzione (articoli alla mano); 2) Che questa legge è una truffa (codice penale alla mano; 3) Che questa legge è fascista (storia alla mano); 4) Che questa legge è fatta per proteggere la Dc che ha perso nel paese la maggioranza del 18 aprile (risultati elettorali alla mano) […]” (articolo consevato da Nenni, in Archivio Nenni).

Il confronto che si svolge al Senato non è meno infuocato, anche perché De Gasperi pone preliminarmente la questione di fiducia. La polemica si concentra su quelli che sono considerati i modelli di riferimento del progetto governativo: oltre alla legge Acerbo, la legge elettorale francese del 1951, che aveva scavato una profonda trincea maggioritaria per arginare l’avanzata del movimento gollista e dei comunisti. Sandro Pertini e Alfredo Frassati smontano l’esempio d’oltralpe, le cui prime prove non erano riuscite a garantire la governabilità.

Il 18 gennaio 1953 viene votata a Montecitorio la riforma elettorale, mentre nelle strade della Capitale si susseguono gli scontri tra reparti della Celere e manifestanti. De Gasperi, che è presente in aula, ribadisce che è dovere imprescindibile del governo assicurare l’autonomia del parlamento da ogni sorta di pressione esterna. La tensione sale in tutte le piazze della penisola. A Livorno, un ordine del giorno approvato dagli operai comunisti e socialisti della Moto-Fides dichiarano di essere pronti a battersi “per la salvezza della verità, contro ogni tentativo di soffocazione delle libertà costituzionali e in particolare contro la legge elettorale truffaldina”.

Per altro verso, si moltiplicano nelle prefetture le segnalazioni di presunti piani di sabotaggio o di ricostituzione di “bracci armati” in seno alle cellule del Pci. Nella campagna elettorale, che è al calor bianco, si intrecciano le forme più diverse di delegittimazione dell’avversario. Si respira nuovamente un’aria da 18 aprile 1948. Nei manifesti della Dc compaiono due loschi figuri: un fascista con manganello e pugnale e un comunista con il basco con la stella rossa. In quelli della sinistra la Democrazia cristiana viene bollata come il” partito della greppia”. Nei quadri murali del Msi troneggia De Gasperi in divisa da carabiniere.

Fin da quando si profila l’accantonamento del proporzionale, quotidiani e riviste della sinistra si impegnano in un massiccio battage propagandistico teso a far diventare senso comune il carattere liberticida della “legge truffa” in gestazione. Dal canto suo, il variegato mondo della stampa di opinione e dei partiti di centro difende strenuamente quella che che viene giudicata come una specie di “ultima sponda” per la democrazia italiana. Fuori dal coro “Il Mondo”, che già nel gennaio 1952 si era speso per favorire il rilancio di un’area liberaldemocratica trasversale al sistema dei partiti.

Dopo aver stigmatizzato la condotta di Psdi, Pri e Pli divenuti “servi dei democristi”, Gaetano Salvemini sulle sue colonne indica per il futuro la necessità di creare una “terza forza”, riunificando lo schieramento laico in una “confederazione dei gruppi di centro-sinistra e sinistra”. L’appello, nonostante l’adesione di prestigiosi intellettuali, avrà scarsa fortuna. Tuttavia, dalle fila liberali, socialdemocratiche e repubblicane nel frattempo erano uscite personalità di rilievo come Epicarmo Corbino, Calamandrei e Ferruccio Parri. Gli ultimi due -insieme a Antonio Greppi- danno vita al movimento di Unità popolare, dietro cui si schierano quanti cercavano nel sistema politico italiano gli spazi per una “terza via”. Tra questi: Arturo Carlo Jemolo, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Carlo Levi, Leo Valiani, Mario Soldati, Bruno Zevi.
Lunedì 8 giugno 1953: si chiudono i seggi elettorali e cominciano le operazioni di scrutinio. Una settimana dopo vengono ufficializzati i risultati definitivi. L’affluenza alle urne è stata del 93,8 per cento. Il quorum non scatta per cinquantasettemila voti, a fronte di un milione e trecentomila schede bianche, nulle o contestate. Negli ambienti vicini al governo il Pci viene accusato di brogli e si invoca un riconteggio delle schede: “In un paese come l’Italia, l’onestà è considerata dabbenaggine [ …] Ricordatevi di quel che fece Romita in occasione del referendum sul re. La ragione è sempre dalla parte di chi vince” (Nicola Adelfi, “L’Europeo”, 21 giugno 1953).

Nello stesso articolo si menzionano le concitate conversazioni che nella notte tra il 9 e 10 giugno sarebbero avvenute nei corridoi del Viminale, incontrando il deciso rifiuto di De Gasperi: ” Come possiamo fare noi una cosa che quelli farebbero, quando non siamo né comunisti né fascisti?”. In un successivo incontro con l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, il leader democristiano individuerà nella competizione sfrenata tra i candidati di uno stesso partito (il famigerato “assalto alle preferenze”) la causa principale dell’elevato numero di voti invalidati. In realtà, per la Dc si era ormai chiusa una pagina che non poteva essere più riaperta.

Nonostante la sconfitta, il presidente del Consiglio in carica era convinto che la politica centrista non avesse alternative. Ma restava sul tappeto il nodo del fallimento degli alleati laici, la vera spina nel fianco della strategia degasperiana. L’abile gioco di Togliatti, lamenterà Luigi Salvatorelli, aveva minato la parte debole della coalizione. Comunque, “nessuna catastrofe è in vista, nessun Annibale è alle porte, [ anche se ] si è fatto un gran passo indietro sulla via della stabilità governativa” (“La Stampa”,14 giugno 1953). Sul versante di sinistra, Nenni titola il suo editoriale sul quotidiano socialista: “Eppure è successo qualcosa di grosso”, ossia la débacle del “regime degasperiano”. Nel mondo cattolico, la rivista “Vita e Pensiero” ospita un duplice intervento di Carlo Colombo che non esclude a priori un dialogo con il Psi. La preoccupazione che muove il teologo di fiducia di padre Gemelli era quella di trovare terreni più ampi e più fertili per la dottrina sociale della chiesa. Si tratta di uno dei primi semi di quell’apertura a sinistra che daranno i loro frutti più maturi dieci anni dopo.

Il 25 giugno 1953 si inaugura la seconda legislatura repubblicana. Viene subito annunciato un progetto di legge, con in calce la firma di Nenni, che recita: “Abrogazione della legge 31 marzo 1953, n.148”. Comincia una nuova fase della politica italiana.

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