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Andrea Doria, il principe del mare

Nei giorni in cui la città vive uno dei momenti più luttuosi della sua storia, un ritratto di uno dei figli più grandi di Genova, Andrea Doria, nel bloc notes di Michele Magno “La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze…

“La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare”, sostiene Carl Schmitt in “Terra e mare” (1942). È alla luce di questa contrapposizione, rappresentata nella Bibbia dai mostri Leviathan e Behemoth, che il giurista tedesco rilegge le grandi dicotomie della vicenda umana: amico e nemico, ordine e disordine, guerra e pace. In un racconto influenzato più dai romanzi di Herman Melville che dagli studi sul Rinascimento di Jacob Burckhardt, il teorico dello “stato di eccezione” descrive quella “rivoluzione spaziale planetaria” segnata dall’evento con cui inizia l’era moderna: la scoperta delle Americhe. È da allora che l’uomo, per natura creatura terrestre, “rinasce quale figlio del mare”. Venezia e Genova, Amsterdam e Londra saranno culle di questa rinascita.

Nell’antichità, la stessa Atene di Temistocle aveva evitato un declino rovinoso trasformandosi in una talassocrazia. Nelle “Vite parallele” Plutarco sottolinea come, una volta sventata la minaccia persiana dopo la vittoria di Salamina (480 a.C.), con l’apertura del Pireo ai tradizionali “aristòi” latifondisti fosse subentrato un ceto virtuoso del “remo e del timone”. Il suo valore sociale non si basava sul sangue o sulla proprietà terriera, ma sulla capacità di governare la nave, metafora della capacità di reggere la polis. Questa “apertura al mare” crea anche una nuova antropologia: marinai, nostromi e piloti educati all’audacia e alla prudenza, al coraggio e all’accortezza che il dominio dei flutti imponeva (Filippo Ruschi, “Questioni di spazio”, Giappichelli, 2012).

La funzione pedagogica del mare sarà ripresa da Tommaso Moro, il quale colloca la “societas perfecta” su un’isola, quella di Utopia, in cui erano ignote avidità e intolleranza. Il futuro cancelliere inglese, il lord cattolicissimo condannato alla pena capitale da Enrico VIII, concepisce il suo libello nel 1516, quando l’Atlantico cominciava ad essere solcato con una certa regolarità. Nello stesso anno il sedicenne Carlo d’Asburgo saliva sul trono di Spagna. Nel 1519 un consorzio di banchieri, sborsando una cifra astronomica di fiorini, gli permette di mettere fuori gioco il suo rivale, il re di Francia Francesco I, e di cingere la corona imperiale col nome di Carlo V. Il consorzio era formato da banchieri assai facoltosi, tra cui il fiorentino Filippo Gualterotti, Jacob Fugger e Bartholomäus Welser, entrambi di Augusta, il genovese Nicolò Grimaldi. Ma il vero regista di un’operazione destinata a cambiare radicalmente gli equilibri politici europei era stato un altro genovese, Andrea Doria. Un capolavoro diplomatico che consentirà al principe di Melfi, titolo di cui sarà insignito da Carlo V nel 1531, di calcare da protagonista il palcoscenico continentale ancora per un trentennio, preservando l’autonomia della città che considerava la sua patria e il ruolo internazionale del suo casato.

Come osserva Gabriella Airaldi (“Andrea Doria”, Salerno Editrice, 2015), il ritratto più fedele del principe si deve a Ludovico Ariosto. A lui il poeta affida il compito di rappresentare il sistema di valori su cui la civiltà cristiana ha modellato la propria identità. Esponente di spicco dell’oligarchia fondiaria, il principe non era uno dei tanti capitani di ventura che arruolavano mercenari al soldo di qualche tiranno di provincia. Né era uno dei tanti “asientistas” (prestatori di denaro) o fornitori di biscotti e di carne, in grado di lucrare interessi ciclopici sulle somme pattuite. Era invece un artista della guerra, che “fa dai pirati sicuro [il Mediterraneo] per tutti i lati” (“Orlando Furioso”, XV canto). In questo senso, per Ariosto nelle sue imprese riviveva l’antico codice cavalleresco. Le sue risorse più preziose erano le corazze che indossava (gli “arnès del caballer”) e le galee che comprava. Il loro allestimento era molto costoso, e la vita di bordo grama. Il lezzo era atroce, il sapone scarso. Tutti dormivano vestiti, i galeotti al remo con la testa reclinata su ruvidi banchi di legno. In una imbarcazione lunga circa quarantadue metri e larga cinque, solo la camera di poppa poteva ospitare capitano, nobili e passeggeri di riguardo. Chi bestemmiava più di tre volte veniva appeso per la lingua. Nel 1528 le galee del principe erano dodici. Saranno sufficienti a liberare Genova dal giogo francese.

Andrea era nato a Oneglia il 30 novembre 1466. Pur provenendo da un ramo minore dei Doria, fin da fanciullo sapeva di appartenere a un prestigiosissimo “albergo”, come si chiamava un singolare istituto comunale composto da almeno sei capifamiglia, di solito consanguinei e legati da un forte vincolo di solidarietà. I Doria, cittadini genovesi di diritto, erano titolari di una delle maggiori fortune private e del più importante porto del tempo. Esperti uomini d’affari, reinvestivano incessantemente nella guerra i proventi di compensi e bottini, saccheggi e prebende. Erano grandi elettori del doge e gestivano le cariche pubbliche più rilevanti. Attivi perfino sulle coste del Baltico, importavano dalla Svezia e dalla Russia merluzzo e caviale e vi esportavano agrumi.

Dopo i viaggi di Cristoforo Colombo, Vasco da Gama e Bartolomeo Diaz, diventeranno colonne finanziarie della politica espansionista di Carlo V. Potranno così gestire la tratta degli schiavi e controllare i mercati dell’allume, dello zucchero e del caffè. Trascorsa l’infanzia nelle valli onegliesi, di cui il padre Ceva e la madre Caracosa erano consignori, la formazione giovanile di Andrea si compie quindi in un ambiente dove si respirava l’aria del potere a pieni polmoni. Egli non dimenticherà mai il significato dell’aquila ad ali spiegate che campeggiava nello stemma di famiglia, e cioè che devozione al clan, fedeltà al regime repubblicano e lealtà all’Impero erano princìpi inseparabili.

Ancora ragazzo, comincia a frequentare le corti di mezza Europa. Nel 1484 va a Roma, “a ritrovar Nicolò d’Oria -come scrive il suo primo biografo Lorenzo Capelloni- che militava alli servigi di papa Innocenzo VIII per capitano delle sue guardie, dove Andrea fu fatto uomo d’arme”. Vi resterà fino all’ascesa al soglio pontificio di Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503). Nella sede apostolica Andrea non è solo. Suo protettore è Domenico Doria, il “cubicularius” (cameriere personale) del papa. È benvoluto da Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cibo), patrizio genovese come lui (di cui sposerà la nipote Peretta nel 1527), e da Giuliano della Rovere, il futuro Giulio II (1503-1513), il cardinale di Albisola molto influente nel Sacro Collegio.

In quegli anni una sfarzosa famiglia genovese, i Centurione, gestiva le decime della “cruzada”, l’imponente raccolta di fondi lanciata da Innocenzo VIII per finanziare la riconquista di Granada, allora un sultanato retto dalla dinastia dei Nasridi. Vent’anni più tardi, Adamo Centurione diventerà il compagno di avventure più fidato di Andrea e la sua eminenza grigia. Dopo il lungo soggiorno romano, l’ormai adulto onegliese fa tappa a Urbino, Parigi, Madrid. Già amico di cardinali e pontefici, si circonda di intellettuali e artisti, stringe rapporti con le élite economiche e militari dell’epoca, plasma la sua forma mentis cosmopolita.

Nel 1499 è a Genova, ancora sotto la signoria milanese. Con un’azione fulminea, le truppe francesi la occupano. Giuliano della Rovere consegna le chiavi della città a Luigi XII. Andrea non si oppone, più impegnato com’era ad arginare l’offensiva di Cesare Borgia, il figlio di Alessandro VI, a caccia di nuovi possedimenti in Romagna. La fama di Andrea salirà alle stelle nel 1506, quando riesce a reprimere con violenza inaudita la ribellione dei corsi, “riducendoli alla prima obbedienza”. Mentre nel 1507 le sue doti di abilissimo negoziatore saranno determinanti per sedare il tumulto delle “cappette” (dal nome del caratteristico abbigliamento dei rappresentanti del popolo).

I “populares”, ostili ai francesi,chiedevano due terzi delle cariche civiche, e non solo la metà come stabilito nel 1413. Accerchiati dall’esercito di Luigi XII, sono costretti ad arrendersi. Grazie ai buoni uffici di Andrea, la vecchia composizione delle magistrature viene annullata, e ciò permette a nobili e popolari di concordare una soluzione del conflitto che viene accettata dal re di Francia. Luigi XII dichiara che la sollevazione è stata causata dagli umori malvagi della plebe contro i “ricchi”, i quali possono essere però sia nobili che popolari. Nella storia di Genova, questo è il primo tentativo di costituire un polo di potere unitario tra le due fazioni, una sorta di preludio alla riforma costituzionale sperimentata senza successo dal doge Ottaviano Fregoso tra il 1513 e il 1515, e che sarà invece portata a termine tredici anni dopo.

La mattina del 12 settembre 1528 Andrea raggiunge la piazza dove, attorno alla chiesa gentilizia di San Matteo, si alzavano i palazzi dei Doria. Lì pronuncia un memorabile discorso. Non è più il momento delle “vane e disonorevoli parcialità”, ammonisce. Occorre essere “huomini rationali”. Devono pertanto cessare le lotte intestine che hanno dilaniato Genova. I ceti dirigenti, qualunque siano i loro avi, hanno il dovere di difendere quella libertà politica che è presidio della libertà degli affari. Infine, propone un’Unione tra nobili e popolari che non penalizzi nessun mestiere e nessun cittadino. Dopo questo discorso, il tradizionale sistema di potere cambierà pelle. L’albergo si trasforma in una struttura pubblica. Le funzioni governative divengono revocabili e sottoposte a decisioni collegiali. Il doge resta in carica solo per un biennio. L’amministrazione della giustizia penale spetta a un Senato di otto membri. La Camera dei procuratori, una specie di ministero delle Finanze,deve rendere conto del proprio operato ai Supremi Sindicatori, di cui Priore a vita è Andrea Doria, comandante generale del Mediterraneo e consigliere dell’imperatore.

L’unica istituzione che non viene toccata -“exemplo veramente raro”, secondo Machiavelli- è il Banco di San Giorgio. Cassaforte della Repubblica, incamerava gli introiti provenienti dalla riscossione delle principali gabelle, tra cui quelle -particolarmente redditizie- sull’attività portuale. I “luoghi”, ossia le quote del debito pubblico che deteneva, erano considerati un bene rifugio che attirava anche il risparmio estero, sicché il Banco poteva esercitare il credito a livello europeo. Il rivolgimento istituzionale voluto da Andrea, che farà di Genova una “città imperiale”, consolida l’alleanza con Carlo V. Le sterminate ricchezze provenienti dal Nuovo Mondo erano divorate dalle spese militari smisurate e dai consumi opulenti degli spagnoli. L’imperatore aveva perciò un crescente bisogno di navi e di capitali. Le famiglie genovesi che fiancheggiavano Andrea non si faranno sfuggire l’occasione. In cambio, fiumi di oro e argento si riverseranno nei forzieri dei Doria e dei Centurione, dei Grimaldi e degli Spinola, dei Lomellini e dei Pallavicino.

Il nuovo sistema di potere ideato da Andrea sarà messo a dura prova da numerose congiure, dal malcontento dei “franciosanti”, dei “navalisti”, dei setaioli, e dagli scontri interni all’Unione. Lo testimonia l’elezione del popolare Giovanni Fornari, che nel 1545 diventa doge trasgredendo la regola dell’alternanza.Lo testimonia soprattutto la congiura ordita nel gennaio 1547 dal filofrancese Gianluigi Fieschi, che si prefiggeva di eliminare fisicamente il principe e Adamo Centurione. Data la caratura dei personaggi, non solo esponenti autorevoli di due clan in conflitto, ma espressione di due grandi schieramenti europei, la congiura assumeva un rilievo che travalicava i confini della faida locale.

La terribile vendetta di Andrea, infatti, spianava definitivamente la strada all’egemonia asburgica nella penisola. Per questo motivo è stata letta come una sorta di spartiacque della storia europea, divenendo anche una fonte di ispirazione per filosofi e letterati come Rousseau, Schiller e Francesco Guerrazzi. La “congiura dei Fieschi”, pur sventata in un bagno di sangue, era suonata come un campanello d’allarme per la stabilità repubblicana. Da qui l’approvazione del “Garibetto” il 9 novembre 1547, la legge volta a dare un assestamento, un “sesto” (“gaibetto”, in dialetto genovese) alla riforma del 1528, attraverso l’occhiuto controllo politico di una più ristretta cerchia oligarchica.

Nell’ultimo decennio della sua vita, il principe dovrà fronteggiare la bellicosa alleanza franco-turca, che nell’alto Tirreno stava cercando di chiudere in una morsa il porto genovese. Nonostante l’età avanzata, continua a guidare le sue galee in mille scaramucce e in mille battaglie. Il 6 luglio 1549 Rapallo è attaccata dai pirati barbareschi di Dragut, soprannominato la “spada vendicatrice dell’Islam”, che era succeduto a Kareddin Barbarossa. Tutta la Riviera di levante diventa vittima delle sue scorrerie e teatro di aspri duelli navali. Ai primi di gennaio del 1553 Andrea è di fronte a Gerba, ma Dragut gli sfugge e si autonomina pascià di Tripoli. In estate si scontrano all’isola di Ponza, dove Il principe perde sette galee. Poco dopo libera dall’assedio senese la fortezza di Orbetello. Ma dovrà tornare precipitosamente in Corsica, nelle mani -ad eccezione di Calvi- dei francesi e dei turchi. La Repubblica era in pericolo. Il vecchio principe farà ritorno in patria nel 1555, dopo una campagna estenuante che richiedeva faticosi e massicci spostamenti di truppe, armamenti, salmerie. Nel 1559 ottiene la sua ultima vittoria: il Trattato di Cateau-Cambrésis, che sanciva la supremazia spagnola in Italia, restituisce la Corsica a Genova. Nel 1558 aveva vergato il suo testamento, in cui designava suo erede pressoché universale il pronipote Giannandrea, da lui stimato come un giovane valoroso e degno di succedergli.

Tutti i quadri che ritraggono il principe alludono in vario modo al ruolo che ha avuto nella società e nella cultura genovese. Come Nettuno è ritratto da Sebastiano del Piombo (1526) e dal Bronzino (1540); e al British Museum è conservato il disegno della statua -mai scolpita- di Baccio Bandinelli. Nel quadro di William Key (1548) Andrea è avvolto in un manto di velluto scuro, che copre una veste di seta nera, e porta la berretta dei magistrati. Come suggerisce Airaldi, l’immagine ricorda quella di Carlo V dipinta da Tiziano dopo la battaglia di Muhlberg (1547) contro la Lega di Smalcalda (di fede protestante). Nel quadro lo sguardo di Andrea è rivolto verso lo spettatore, ma di fronte ha un gatto soriano che lo fissa a sua volta.

Proprio un gatto compariva nello stemma araldico dei Fieschi, insieme al motto “Sedens Ago” (Agisco stando fermo). Inoltre, vicino al felino c’è un orologio, che richiama il detto latino “Ruit hora et irreparabile fugit tempus”, l’inarrestabile fluire del tempo. Oppure l’orologio è l’Impero e il gatto è la Repubblica: uno rappresenta l’ordine e l’altro la libertà. Non lo sapremo mai, come non sapremo mai se, prima di spirare il 25 novembre 1560, sia stato il principe a scegliere il motto biblico inciso sulla sua tomba: “Super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et dragonem” (Tu camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il drago). Sepolto a San Matteo in tutta semplicità, come aveva stabilito nel testamento, il 7 dicembre la Repubblica gli tributa esequie solenni nella cattedrale di San Lorenzo, “le quali si fecero conformi -scriverà Giannandrea- alli meriti del liberator della patria”.

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