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Ennio Flaiano, un testimone (scomodo) del proprio tempo

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nel 1947 Ennio Flaiano (1910-1972) vinse la prima edizione del premio Strega con “Tempo di uccidere”. Il romanzo che lo fece conoscere al grande pubblico era stato fortemente voluto da Leo Longanesi, formidabile editore e intellettuale scomodo (“diseur de bons mots” e “mauvais caractère” lo definì Leonaro Sciascia. Giuseppe Prezzolini, decano degli intellettuali e dei giornalisti laici italiani, nella “Storia tascabile della letteratura italiana” (1976) li accomunò sotto l’etichetta di “folli” e di “sgominatori” di luoghi comuni.

Uno dei motivi di fondo del suo pensiero è il radicale realismo leopardiano, il proposito di “chiamare le cose coi loro nomi”. Ciò lo conduce ad apprezzare le opere d’arte che raccontano la vita senza orpelli e senza intenti pedagogici o edificatori. Il realismo che ama è quello di Verga, nudo, spoglio, che non propone prediche.

Flaiano riflette in numerosi scritti sul tema del “vero”, chiamando in causa gli autori preferiti: Manzoni, Baudelaire, Flaubert, Gadda. Tema di stretta attualità politica, perché il ricorso alla verità era stato liberatorio nei confronti del fascismo e di un ventennio fondato sulla verità di regime, che denuncia con amarezza. Ma egli non accetta che “il vero assuma vesti pregiudizialmente politiche, che minano alla radice la verità stessa” (Gino Ruozzi, “Ennio Flaiano, una verità personale”, Carocci, 2012).

In Flaiano, per concludere, il letterato e il cronista coincidono. Egli è lo “scrittore e l’intellettuale impegnato (anche se situato altrove rispetto alla maggior parte degli intellettuali ‘engagés’) che non cessa di confrontarsi con la società del proprio tempo, anche quando per indignazione la rifiuta” (Ruozzi). I due brani che seguono ne sono una lampante testimonianza.

Il primo è un ritratto della società letteraria dell’epoca, sconsolato e implacabile:

“Volere è potere: la divisa di questo secolo. Troppa gente che ‘vuole’, piena soltanto di volontà (non la ‘buona volontà’ kantiana, ma la volontà di ambizione); troppi incapaci che debbono affermarsi e ci riescono, senz’altre attitudini che una dura e opaca volontà. E dove la dirigono? Nei campi dell’arte, molto spesso, che sono oggi i più vasti e ambigui, un West dove ognuno si fa la sua legge e la impone agli sceriffi. Qui, la loro sfrenata volontà può esser scambiata per talento, per ingegno, comunque per intelligenza. Così, questi disperati senza qualità di cuore e di mente, vivono nell’ebbrezza di arrivare, di esibirsi, imparano qualcosa di facile, rifanno magari il verso di qualche loro maestro elettivo, che li disprezza. Amministrano poi con avarizia le loro povere forze, seguono le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti ad ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Finché la Fama si decide ad andare a letto con loro per stanchezza, una sola volta: tanto per levarseli dai piedi” (“Diario notturno”, 1956).

Nel secondo (apparso sul Corriere della Sera il 3 settembre 1972, tre mesi prima della sua scomparsa) esprime tutto il suo proverbiale disincanto, che non faceva tuttavia velo a un composto amore per la propria patria. Allora c’era la Prima Repubblica che celebrava i suoi effimeri trionfi. Oggi che la Seconda Repubblica è di fatto già alle nostre spalle, le parole del grande pescarese suonano profetiche:

“Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L’età mi ha ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio agli storici, ai sociologi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri, perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la loro verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerebbe invitare anche uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco nella nostra psicologia. In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”.

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