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via della Seta

Perché non mi convincono del tutto le sintonie a 5 stelle fra Italia e Cina

Difficile non vedere in tutto questo movimento l’inizio di una piccola rivoluzione, dopo anni di torpore, in cui la Cina, in Europa, ha ottenuto quello che voleva, senza colpo ferire. Il commento di Gianfranco Polillo

 

La terza legge della dinamica stabilisce che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Questo principio della fisica, a volte, vale anche per la politica. Non avviene sempre, ma di sicuro quando si è troppo ecceduto. Fino a qualche settimana fa i rapporti tra l’Occidente e la Cina popolare erano vissuti con grande discrezione. Ognuno faceva i propri affari, anche se quelli cinesi, data la mole di quel Paese, ma soprattutto la maggior potenza economica e finanziaria, erano certamente migliori.

Poi l’enfasi riporta dal Governo italiano sul memorandum of understanding che avrebbe dovuto dischiudere la “nuova via della seta”, unito al fantasmagorico viaggio di Xi Jinping, a Roma, con il suo numeroso seguito di dignitari, ha acceso un faro. E dato sostanza alle precedenti riserve americane, culminate nel suggerimento dell’ambasciatore Eisenberg. Rivolgendosi a Luigi Di Maio, in procinto di recarsi a Washington, secondo quanto riporta “Il sole”, lo avrebbe messo in guardia: sarà accolto con gentilezza, ma anche con molte, molte riserve.

Più istituzionale la reazione europea. Qualche giorno fa, esattamente lo scorso 13 marzo, la Commissione Europe aveva pubblicato un paper (Foreign direct investment in the Ue), in cui si aggiornavano precedenti studi in materia. Ma, soprattutto, si cercava di illustrare in che modo l’Europa stessa potesse essere condizionata dalla presenza del capitale estero. Specie se proveniente da quelle parti del Mondo (paradisi fiscali, mondo arabo o Cina comunista) considerate meno affidabili.

Inevitabile un lungo capitolo sulla Cina popolare in cui se ne metteva in evidenza la grande espansione, intervenuta soprattutto a partire dal 2013. Epoca in cui gli investimenti, in Europa, raggiungevano il valore di 25 miliardi, rispetto ai 2,5 del 2009 – 2010. Con l’aggravante ch’essi erano effettuati soprattutto da aziende pubbliche, controllate in larga misura dallo Stato centrale. La cui influenza – si legge nel rapporto – poteva orientare le acquisizioni di imprese europee più da un punto di vista strategico che non commerciale o finanziario. Tanto più che quelle stesse aziende potevano contare, grazie alla presenza dello Stato, su straordinari apporti finanziari.

Semplice teoria? Tutt’altro. Mentre a Roma il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, firmava, con la Cina, un protocollo, che, a suo dire, aveva solo un valore simbolico. Come se i simboli non contassero in politica estera. Bruxelles si apprestava a decretare un vero e proprio stato di assedio. Avendo la responsabilità della politica commerciale, ai quali principi i singoli Stati dovranno attenersi, intendeva varare un complesso di regole destinate, in qualche modo, a limitare le scorrerie che fino ad allora si erano verificate.

Saranno, ovviamente, regole generali. Ma che hanno un centro di imputazione precisa. Come facile vedere l’imputato numero uno è proprio la Cina. In prospettiva, infatti, vi dovrà essere uno screening sugli investimenti esteri. Saranno benvenuti quelli che non portano problemi. Respinti quelli che generano sospetti di natura politica. Sarà, in particolare, un’Autorità indipendente a valutarne i profili. Mentre una sorta di “golden power” europeo distinguerà i settori strategici da quelli semplicemente commerciali.

Altro tema è quello delle aziende pubbliche, partecipate dallo Stato. Non sarà consentito loro di partecipare ad eventuali appalti, per non alterare il principio di concorrenza. È infatti evidente che vi sarebbe uno squilibrio di base inaccettabile, data la loro maggiore facilità nel procurarsi le necessarie risorse finanziarie. Stessa cautela per l’acquisizione di altri asset su base competitiva. Vi dovrà, poi, essere reciprocità: quella trasparenza invocata dallo stesso Presidente della repubblica, Sergio Mattarella. Sarà impedito l’ingresso di quelle aziende i cui Paesi applicano limitazioni inaccettabili nei confronti di quelle europee.

Sullo sfondo, infine, la necessità di contribuire attivamente alla nascita di quei “campioni europei” che rappresentano la diga più forte al predominio in Europa dei grandi gruppi internazionali. Siano essi americani, cinesi o semplicemente apolidi. L’impegno maggiore dovrebbe essere prodotto proprio nei settori più strategici ed a più alto contenuto tecnologico. Imponendo quelle modifiche alla stessa legislazione antitrust che molti Paesi europei hanno usato come una clava, per impedire processi di razionalizzazione produttiva. Che alcuni di questi Paesi, poi, avessero già firmato gli accordi con la Cina, può essere letto maliziosamente, ma con una forte probabilità di non sbagliare.

Difficile non vedere in tutto questo movimento l’inizio di una piccola rivoluzione, dopo anni di torpore, in cui la Cina, in Europa, ha ottenuto quello che voleva, senza colpo ferire. Sembra quasi una legge del contrappasso. Xi Jinping che giunge a Roma per siglare l’intesa del secolo, con un Paese del G7; Bruxelles che, pur tra inchini e sorrisi, risponde alzando i ponti levatoi. Se fosse così, i 5 stelle non dovrebbero essere molto contenti. Hanno gestito l’affaire, violando regole e consuetudini internazionali. Hanno, di fatto, estromesso la Farnesina e concentrato tutto sul Ministero dello sviluppo economico. Come se la crescita degli scambi commerciali fosse un variabile indipendente rispetto alla politica estera. Ed ora si trovano isolati, nel mezzo di una piccola bufera. Di cui, forse, non hanno ancora contezza. Ma che presto ricadrà sulla loro testa.

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