Fornitori cinesi esclusi dai progetti sul 5G. Dopo gli Stati Uniti di Donald Trump, che si sono già mossi per relegare Huawei e Zte a un ruolo marginale sul mercato statunitense, Australia e India mettono il veto alle attrezzature di rete Made in China, considerate un rischio per la sicurezza nazionale.
COME SI MUOVONO USA, AUSTRALIA E INDIA
Negli Usa il recente Defence Authorization Act – il programma da 716 miliardi di dollari che rafforza la difesa e la sicurezza interne – ha stabilito che le agenzie governative americane non possono più utilizzare componenti hardware e software Made in China che abbiano a che fare con le infrastrutture strategiche. Resta in fase di deliberazione la proposta della Federal Communications Commission (Fcc) di escludere i cinesi dai progetti per la realizzazione delle nuove reti 5G finanziati con i fondi pubblici per la banda ultralarga.
In Australia, Huawei e Zte sono state già formalmente escluse dalle installazioni delle reti mobili di quinta generazione: Canberra ritiene che i vendor cinesi abbiano legami con Pechino che pongono un rischio di sicurezza.
Infine, nei giorni scorsi in India il Department of Telecom ha tolto i vendor cinesi dalla lista di partner approvati per i test dei casi d’uso del 5G, primo passo che potrebbe portare a un’esclusione dalla partecipazione al roll-out delle reti come in Usa e Australia. Nella lista dei partner autorizzati a cooperare sui trial indiani del 5G restano Cisco, Samsung, Ericsson, Nokia.
I COMMENTI DA GIAPPONE E CINA
La Cina ha una solida leadership tecnologica e offre prodotti di rete che sbaragliano la concorrenza sul prezzo, ma comincia a temere l’effetto-domino, ha commentato il Nikkei Asian Review: che cosa succederà se altri governi seguiranno la strada tracciata da Canberra? L’Australia (dove Huawei controlla più della metà del mercato in termini di attrezzature 4G) ha agito in base a “pregiudizi ideologici”, ha commentato Lu Kang, portavoce del ministro degli Affari Esteri cinese, invitando il paese a tornare sui suoi passi.
Il 5G è un terreno di scontro cruciale per le super-potenze perché la supremazia tecnologica si tradurrà in primato economico e politico: il nuovo standard mobile abiliterà applicazioni di alto valore per l’industria e i consumatori, dalla Internet of Things alle auto a guida autonoma. I primi lanci commerciali sono previsti a partire dal 2019.
Esclusi i cinesi dalle forniture per le reti 5G, i vendor tra cui scegliere si restringono fondamentalmente a Ericsson, Nokia e Cisco. Ridurre ulteriormente la concorrenza potrebbe andare a scapito degli utenti finali, causando un aumento dei prezzi e danneggiando i progetti dei governi e delle telco, ha sottolineato il Global Times, testata in inglese sostenuta da Pechino.
Il Nikkei Asian Review ritiene che il Giappone, nonostante sia un importante alleato degli Stati Uniti, non cercherà di imporre veti come quello australiano, essendosi impegnato alla cooperazione con la Cina sulle reti di nuova generazione. La giapponese SoftBank sta testando il 5G con Huawei e Zte è fornitore di attrezzature per gli operatori mobili Ntt Docomo, Kddi e la stessa SoftBank.
LA DIFESA DI HUAWEI
Le decisioni dei governi contro le aziende cinesi non sono obiettive né fondate sui fatti, si difendono Huawei e Zte. Nel caso degli Stati Uniti, Huawei ha chiarito che condivide gli obiettivi di Washington sulla sicurezza, ma le nuove misure sono “inefficaci, fuorvianti e incostituzionali” e serviranno “solo a soffocare l’innovazione aumentando i costi per i consumatori e le imprese statunitensi”. Nel caso del veto del governo australiano, il gruppo cinese ha parlato di motivazioni “politiche”che “minano i principi della concorrenza e della non discriminazione nel commercio equo”.
Huawei ha anche spiegato che la legge cinese non concede a Pechino l’autorità per obbligare le imprese di telecomunicazione a installare “backdoor o dispositivi di ascolto o ad adottare comportamenti che potrebbero compromettere le apparecchiature di telecomunicazione di altre nazioni” e ha ricordato di non essere “mai stata incaricata di svolgere attività di intelligence per conto di alcun governo”. Un mercato non competitivo “aumenterà il costo della costruzione della rete e avrà effetti duraturi sulla transizione dell’Australia verso un’economia digitale”, ha affermato Huawei. “Le aziende e i consumatori sono quelli che subiranno maggiormente le conseguenze delle azioni del governo”.
IL PRIMATO CINESE
L’ostracismo degli Stati Uniti di Donald Trump nei confronti dell’hitech cinese ha, secondo molti osservatori, il fine ultimo di ostacolare l’affermazione del predominio tecnologico della Cina. Per questo, oltre a colpire i vendor di rete in vista del roll-out del 5G, Washington ha imposto dazi del 25% su una lunga lista di prodotti delle industrie It, aerospazio, automotive, robotica, macchinari industriali e nuovi materiali provenienti dalla Cina. Molti di questi prodotti fanno parte della strategia “Made in China 2025” con cui Pechino promuove la leadership tecnologica nazionale in settori chiave per lo sviluppo futuro, tra cui 5G e intelligenza artificiale. La conseguenza dei dazi, ha calcolato uno studio di Idc China, sarà una flessione dello 0,6% nella crescita del mercato Ict cinese (dal 9,0% all’8,4% nel 2018); sarà colpita infatti una porzione di Pil che vale 4 miliardi di dollari.
Tuttavia, il primato cinese in 5G, Internet of Things e intelligenza artificiale non sarà probabilmente scalfito. Per il Financial Times i traguardi del programma Made in China 2025 non sono a rischio, perché la Cina tenterà di salvaguardare la sua supply chain rifornendosi di componenti (in particolare i chip) e di proprietà intellettuale fuori dagli Stati Uniti, guardando verso i partner europei e asiatici.
Per ora le decisioni di Australia e India non pesano. L’India è però il big mondiale emergente dell’innovazione e un’esclusione definitiva dei vendor cinesi dai progetti 5G potrebbe avere un impatto. Un eventuale effetto-domino (anche Uk e Russia valutano limitazioni ai fornitori di rete cinesi) potrebbe dare a Pechino motivo di preoccuparsi. Sempreché il ricorso a fornitori esclusivamente extra-Cina in alcuni paesi non finisca col danneggiare la loro competitività mentre ricerca, sviluppo e investimenti cinesi continueranno a correre e Pechino trova nuovi alleati commerciali.