Dopo quasi quindici anni di caos seguito alla caduta di Gheddafi, scrive il quotidiano della City, le principali compagnie energetiche mondiali stanno tornando in Libia alla ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas.
Shell, Chevron, TotalEnergies, Eni, Repsol e, da agosto, anche ExxonMobil hanno già ottenuto la prequalifica o firmato accordi preliminari per esplorare il paese. Si tratta della prima asta di licenze esplorative dopo 18 anni, la prima vera apertura dal 2006.
Perché proprio ora
Le major devono assolutamente rinnovare le riserve in portafoglio. Le nuove previsioni dicono che la domanda di greggio resterà robusta più a lungo del previsto, perché la transizione verde procede lentamente e i prezzi sono ancora alti e stabili.
“Tornano nei bacini che conoscono meglio e con i costi più bassi”, spiega un banchiere londinese al Ft. In Libia estrarre un barile costa pochissimo e il rischio politico, per queste compagnie, è routine, non spaventa più di tanto.
L’obiettivo di Tripoli
Il governo di Tripoli, l’unico riconosciuto dall’ONU, controlla l’ovest e vuole spingere la produzione dagli attuali 1,4 milioni a 2 milioni di barili al giorno entro il 2030. Per riuscirci offre contratti di produzione condivisa molto più generosi di quelli del passato. Lo ha ammesso al Ft lo stesso ad di Chevron, Mike Wirth: “Oggi i termini sono più attraenti di quanto non siano mai stati”.
Il nodo Haftar
Il grande ostacolo resta il generale Khalifa Haftar, che con le sue milizie e i figli domina l’est e il sud, dove si trovano i giacimenti più ricchi.
La National Oil Corporation è l’unica autorizzata a vendere il petrolio libico, ma senza il via libera di Haftar i rubinetti si chiudono in un attimo.
Meno Russia, più Occidente
In questi giorni una delegazione libica è a Washington per chiedere apertamente agli Stati Uniti investimenti, tecnologia e sostegno politico per scalzare la Russia, storica alleata di Haftar, che ha rafforzato basi e mercenari nell’est.
Più compagnie occidentali entrano, più Tripoli si rafforza e più si crea un’alternativa concreta al petrolio russo per Europa e Usa.
Prospettive
Gli analisti oscillano tra ottimismo e scetticismo. Da una parte gli investimenti occidentali possono davvero far decollare produzione ed economia; dall’altra, se i nuovi accordi finiscono solo nelle mani delle élite attuali, rischiano di congelare la divisione del paese invece di superarla.
“Può essere una marea che solleva tutte le barche”, conclude Tim Eaton di Chatham House, “ma solo se i benefici vengono distribuiti equamente, altrimenti rafforza chi già comanda”.




