La preparazione della legge budgetaria è occasione di polemica tra le varie forze politiche. Soprattutto le forze di opposizione da alcuni anni, in occasione di queste polemiche, chiedono alla maggioranza interventi per aumentare la busta paga dei dipendenti, non solo della pubblica amministrazione, ma anche dei dipendenti del settore privato. L’unica possibilità in questo senso è data dall’intervento sul cuneo fiscal-contributivo. Si tratta comunque di azioni che possono avere effetti concreti molto limitati.
I salari italiani risultano in una prospettiva europea particolarmente bassi. Bisognerebbe chiedersi come mai i salari sono bassi. Nella prospettiva della sinistra la responsabilità è del datore di lavoro/padrone che, avidamente, sfrutta i dipendenti tenendo per sé quanto andrebbe distribuito sotto forma di salari più consistenti. La pratica, al contrario, dimostra che quando il titolare di una Pmi italiana coopta come socio il suo dipendente più efficace, questo dipendente scopre che, nel passaggio da dipendente a socio, non solo sono aumentate le sue preoccupazioni e l’impegno orario si è esteso notevolmente, ma le sue entrate risultano più contenute rispetto al suo stipendio da dipendente. Di fatto spesso i dipendenti guadagnano più del loro datore di lavoro. Gli stipendi italiani sono bassi perché bassa è la produttività del sistema Italia. La bassa produttività è legata alla dimensione delle aziende italiane che risultano nella stragrande maggioranza delle microimprese. Il fatto è che anche le imprese di dimensioni grandi o medio-grandi non hanno una produttività molto migliore di quella delle piccole imprese.
In un suo recente occasional paper la Banca d’Italia (Le recenti dinamiche della produttività e le trasformazioni del sistema produttivo) evidenzia la bassa produttività del sistema Italia riconducendolo alla prevalenza di piccole imprese che, appunto perché piccole, risultano sotto-capitalizzate. L’occasional paper della Banca d’Italia sembra in effetti confondere il sintomo con la causa della bassa produttività. Le nostre imprese trovano difficoltà a crescere perché soffrono di una malattia ben radicata nel profondo del loro modo di essere. Del resto l’esperienza insegna che l’acquisto di impianti sofisticati grazie a contributi esterni (o pubblici o di un investitore esterno) molto spesso, anziché migliorare la performance, porta le nostre aziende al tracollo definitivo. Sto pensando a casi ben specifici come quello dell’Electrulux Zanussi o alla FIAT prima dell’era Marchionne dove l’investimento pesante in automazione e informatizzazione aveva portato il gruppo vicino al baratro.
Nella mia attività professionale mi è capitato di lavorare per imprese sopra le Alpi e per imprese italiane. La differenza era enorme. In Toscana mi è capitato di lavorare per imprese toscane e per imprese americane, francesi e tedesche che operano in Toscana. La differenza anche qui salta subito agli occhi. L’impresa italiana è sostanzialmente un gruppo di persone. L’impresa di sopra le Alpi ha istituzionalizzato i rapporti personali rendendoli “professionali”. Nell’impresa di “sopra le Alpi” ognuno sa cosa deve fare perché conosce il suo posto – la sua funzione – nel processo produttivo (lo conosce perché gli è stato spiegato). Nella nostra impresa i vari dipendenti devono attendere l’ordine del superiore gerarchico prima di mettersi all’opera. Il sistema che vige sotto le Alpi non solo è pieno di tempi morti (quindi non produttivi) ma è anche demotivante. L’ordine aziendale è garantito da una rigida gerarchia che esercita un controllo innanzi tutto preventivo. Nessuna fiducia è riconosciuta al collaboratore.
Quando in una azienda produttiva di sopra le Alpi arriva un ordine, si sa già tutto il percorso che dovrà essere seguito per arrivare alla consegna del prodotto ordinato. Questo è ritenuto impossibile in Italia. Quando arriva un ordine si ha una idea generale del percorso che dovrà essere fatto per ottenere il prodotto finale lasciando alla creatività italica i dettagli operativi. Risulta che due ordini uguali difficilmente vengono realizzati negli stessi tempi e molto spesso danno luogo a due prodotti non proprio identici.
Va qui notato di sfuggita che la Pubblica Amministrazione soffre degli stessi problemi. Tra l’altro le stesse inefficienze si ritrovano nel sistema di riscossione delle imposte e dei contributi sociali.
Tutto questo non significa che il potere politico deve disinteressarsi del problema della bassa produttività del sistema Italia. Il potere politico deve però far leva non su variabili economiche ma su variabili “culturali”. Oramai è ora che si metta mano seriamente al sistema di formazione oggi disarticolato in vari rivoli scoordinati e privi di una logica di fondo. Citiamo qui i fondi interprofessionali (che non riescono a spendere tutte le risorse che accumulano) i fondi messi a disposizione dall’Ue e dallo stato (anche questi in buona parte non spesi). Il rapporto scuola/mondo del lavoro va ricostruito e i tirocini vanno finalizzati all’acquisizione di competenze specifiche. Del resto i sindacati e le organizzazioni datoriali dovrebbero essere coinvolti in prima persona in questo processo di crescita culturale. Altrimenti ci condanneremo all’auto-emarginazione economica concentrandoci su produzioni a basso valore aggiunto.




